Sette milioni di lire e il sistema crollò. Dal "mariuolo" al "popolo dei fax"

Trent’anni fa l’arresto di Mario Chiesa e la caduta dei partiti: Milano si svegliò capitale di Tangentopoli

Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Francesco Saverio Borrelli in Galleria a Milano

Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Francesco Saverio Borrelli in Galleria a Milano

Trovate questo articolo all'interno della newsletter "Buongiorno Milano". Ogni giorno alle ore 7, dal lunedì al venerdì, gli iscritti alla community del «Giorno» riceveranno una newsletter dedicata alla città di Milano. Per la prima volta i lettori potranno scegliere un prodotto completo, che offre un’informazione dettagliata, arricchita da tanti contenuti personalizzati: oltre alle notizie locali, una guida sempre aggiornata per vivere in maniera nuova la propria città, consigli di lettura e molto altro. www.ilgiorno.it/buongiornomilano

Milano - Sette milioni di lire. Oggi sarebbero più o meno 6 mila euro, un po’ poco per far crollare un intero sistema politico. Eppure, in teoria tutto cominciò così, con una mazzetta da sette milioni incassata dal socialista Mario Chiesa nel suo ufficio di presidente del Pio Albergo Trivulzio, con i carabinieri che entrano e lo trovano così ("con le mani nella marmellata" dirà il pm Antonio Di Pietro ancora sconosciuto), l’arresto per concussione, il via all’inchiesta che diventerà Mani pulite, il primo scorcio su Tangentopoli. Trent’anni fa il 17 febbraio 1992, secolo scorso. In realtà, più che l’avvio dell’indagine quella fu la goccia che fece traboccare il vaso di un sistema in vigore da decenni dove ogni appalto, incarico, licenza, concessione aveva un prezzo, una pratica divenuta ormai insopportabile per un’Italia in profonda crisi economica ma uscita dalle logiche della guerra fredda e ansiosa di cambiamenti.

Così tre settimane dopo quel 17 febbraio bastò un termine, “mariuolo“, con cui il leader del Psi Bettino Craxi battezzò in un’intervista Chiesa a volerlo indicare come l’unica mela marcia del cesto, per far sì che in carcere l’ingegnere cresciuto a Quarto Oggiaro ritrovasse memoria e parola iniziando a raccontare quello che sapeva. Bastò perché di lì a pochi mesi l’effetto a catena degli arresti, delle confessioni e delle successive scarcerazioni di imprenditori, manager e funzionari di stato, persino di qualche politico, contribuisse a demolire una Prima Repubblica - fondata sui partiti di governo Dc, Psi, Pri, Psdi, Pli, tutti ora scomparsi - dove le mazzette e i finanziamenti (illeciti perché non dichiarati) avevano di fatto alimentato l’ intero sistema democratico. E l’ex Pci che dopo il crollo del comunismo aveva cambiato nome in Pds? A Milano colpito anche quello, a livello nazionale meno perché al tavolo della spartizione si faceva “pagare“ più che con i soldi con lavori e appalti assegnati alle sue cooperative (che poi erano generose con il partito, le sue feste e il suo giornale).

Così, quella stessa Italia atterrita dalla mafia che uccideva Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sembrò esaltarsi nell’assistere incredula alla caduta, uno dopo l’altro perché "raggiunti da avviso di garanzia", degli uomini politici che aveva sempre visto al potere. E quel pm molisano dallo sguardo sveglio e abile con i computer (grande novità) diventò in poco tempo una specie di cavaliere senza macchia e senza peccato capace di distruggere la corruzione. Non poteva finire così, naturalmente, però l’inchiesta Mani pulite nel giro di un paio d’anni fece finire sul banco degli imputati (poi condannati) i leader dei partiti storici - oltre a Craxi il dc Arnaldo Forlani, il repubblicano Giorgio La Malfa, il socialdemocratico Carlo Vizzini, il liberale Renato Altissimo e persino il leghista Umberto Bossi - scoperchiando un pentolone fatto realmente di favori, appalti e mazzette.

Durò poco. Giusto un paio d’anni prima che il pool (Di Pietro ma anche Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo) coordinato da Gerardo D’Ambrosio e dal capo Saverio Borrellli, agli occhi di una parte di opinione pubblica perdesse il “tocco magico“. In mezzo c’era stato il processo al finanziere Sergio Cusani, braccio destro dell’imprenditore Raul Gardini inventore della "madre di tutte le tangenti", quella da 175 miliardi per l’affare Enimont (Gardini e Gabriele Cagliari, l’ex presidente Eni, si tolsero la vita). I social non esistevano (c’era il “popolo dei fax“ che manifestava anche in strada a fianco dei magistrati) ma furono in milioni, quasi quanti per una partita della Nazionale di calcio, a seguire in tivù il processo Cusani in cui i politici sfilavano in aula sotto le telecamere. Da lì - e dal crollo del sistema - all’avvio della “Seconda“ Repubblica dopo la discesa in campo di Berlusconi, il passo sarà breve. Poi però, appena il tempo che i pm mandino "l’avviso di garanzia" anche a lui, Berlusconi, e Di Pietro a sorpresa (ma non troppo) si dimetterà dalla magistratura prima di diventare a sua volta un imputato (prosciolto) e quindi un politico. Ma questa è già un’altra storia.  

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro