Luci e ombre sulla riforma del Catasto

Achille

Colombo Clerici*

Riforma del Catasto. Non è questione, né di destra, né di sinistra. Ma di chi vuole dare una spallata all’attuale assetto socio-economico, basato sul risparmio investito nella proprietà diffusa della casa, e di chi no. Proprio in questo momento storico, in mezzo ad una guerra, a una pandemia, ad una crisi economica. Il cuore della cosiddetta riforma del catasto, che io contesto, non è, né l’emersione delle case fantasma, né la lotta senza quartiere all’evasione fiscale, né la perequazione dei valori imponibili catastali: ci sono apposite leggi che non sono quelle di quasi cent’anni fa di cui si dice. Tra le ultime quella del 2004 che, secondo la relazione illustrativa della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 2015, ha attivato interventi da parte di soli 1.300, su 7.774 comuni potenziali, pari al 17% del totale dei comuni italiani. Il Comune di Milano e l’Agenzia delle Entrate negli anni 20082009 hanno dato luogo a 60mila revisioni di unità catastali di proprietà privata, con un incremento di incasso di milioni e milioni. Quelle leggi potenziamole, se occorre, ma soprattutto applichiamole, e poi non diciamo che le rendite catastali sono quelle di 23 o 33 anni fa, cioè del 19881989. Senza dire dei milioni di aggiornamenti automatici di rendite catastali che l’Agenzia delle Entrate ha attivato, a seguito delle denunce obbligatorie degli interventi di riqualificazione edilizia eseguiti dai privati.

Il cuore è la sostituzione degli attuali criteri di determinazione delle basi imponibili, di natura reddituale, con quelli nuovi di natura patrimoniale che, combinati con gli automatismi del nuovo sistema, hanno effetti potenzialmente espropriativi. È tutto da vedere il rapporto con l’art. 53 della Costituzione italiana, che parla della “capacità contributiva”, la quale deve rapportarsi non al valore capitale del risparmio, ancorchè investito negli immobili, ma al reddito dei beni. Altrimenti è come se, nel caso dei depositi in conto corrente bancario, pagassimo l’imposta, non sugli interessi (come avviene), bensì sul valore del denaro depositato. Oggi, con zero interessi, saremmo ridotti a pagare le imposte con quote del capitale, cioè con il risparmio.

*Presidente Assoedilizia