Lo smart working e l’identità di Milano

Migration

Agostino

Picicco*

La ripresa delle attività pone qualche interrogativo su Milano e lo smart working. La pandemia ha incentivato (in taluni casi fatto conoscere) il lavoro da remoto, anche per favorire il distanziamento, e si è scoperto che tale modalità ha dato una nuova prospettiva alla storia del lavoro. Alla luce delle vicende pandemiche qualche studioso ha preso in considerazione l’idea di abbandonare la città, preferendo ville campestri o borghi suggestivi, per lavorare da casa e vivere in luoghi non caotici. Lavorare da remoto evita gli spostamenti, i relativi costi, consente di recuperare tempo, ma ci sono anche dei rischi: la mancanza della divisione tra tempo per il lavoro e quello per la famiglia o gli hobby, il conseguente stress, l’aumento di ore di lavoro non riconosciute, l’isolamento dai colleghi (e dalla macchinetta del caffè) nella condivisione delle decisioni. Si apre un nuovo mondo in cui riprogettare le organizzazioni, ripensare i ruoli, rivedere il controllo alla luce degli obiettivi imposti e della fiducia nutrita, trovare il modo di tenere vive le relazioni, possibilmente senza svuotare di significato i luoghi di lavoro. Ne va della nostra civiltà. I cambiamenti epocali fanno storia, ma il consolidato di secoli non può essere annullato con un colpo di pandemia. Se la tradizione mi affascina, non vuol dire che rinuncio alle possibili novità, ma ritengo che il luogo fisico sia identitario, e anche Milano ha una sua identità in tal senso. A me piacerebbe conservala. E sapere che quando torno dal lavoro posso fare una passeggiata in centro e magari dare una sbirciata a quei bei cortili della vecchia Milano o della Darsena. Il piacere dei luoghi diventa piacere di vita, voglia di normalità e di… sfuggire la novità a tutti i costi.

* Scrittore

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