L’ipnotica Dama di picche

Elvio

Giudici

Ogni artista, un lavoro almeno lo scrive per se stesso: e musicando l’Hermann di Aleksander Puškin, cui il demone del gioco rode la vita isolandolo fino all’autodistruzione, Pëtr Il’ič Čajkovskij - che di lati oscuri ne sapeva parecchio - scrisse la sua opera forse non migliore (supremo capolavoro) ma più personale. Difficilissima tuttavia, la Dama di picche, scenicamente non meno che musicalmente: ancor più merito va quindi riconosciuto alla Scala, che ne ha dato un’esecuzione musicale destinata a porsi quale sicuro riferimento. Ogni volta che lo si ascolta, Valery Gergiev sembra più straordinario della precedente. Stavolta, evoca un universo allucinato eppure stranamente dolce, in una direzione tutta contorsioni ma dagli spigoli arrotondati, che bloccano la narrazione in squarci introspettivi di sbarrata fissità: sorta di schegge ad angolo acuto, su cui vampate melodiche passano scomponendosi in modulazioni inquiete, per ricomporsi in armonie stravolte, ipnotiche nel loro sprofondare in morbide vertigini. Indimenticabile. Che poi in questo particolare momento un amico personale di Putin susciti avversione, ci sta: però la sparuta contestazione indirizzatagli all’inizio a mio avviso non andrebbe rivolta a chi accetta un invito, ma a chi lo fa; e chi eleva un monumento artistico del valore di quello uditosi l’altra sera, per come la vedo io ha sempre e comunque meriti indiscutibili. La parte di Hermann è d’uso definirla “l’Otello russo”, per sottolinearne l’improba difficoltà; non sono d’accordo, è molto più difficile sia da cantare sia da interpretare: Najmiddin Mavlyanov mi è parso magnifico con la sua voce ampia, robustissima, capace di scalare questo Everest vocale ma anche di renderne le complesse ragioni espressive. Voci superbe quelle di Roman Burdenko e di Alexey Markov, a dar vita alle due splendide figure di Tomskij e del principe Eleckij. La parte dell’inquietante Contessa la costruisci non tanto con la voce quanto col carisma: Julia Gertseva ne ha pochino, in aggiunta al suo non far capire una sillaba che una della ghiacciata canzoncina francese. Asmik Grigorian canta benissimo, ma è la personalità a colpire; quel suo entrare in scena e riempirla d’un carisma gigantesco. Una Liza che non potrà mai essere dimenticata. Ci fosse stato anche uno spettacolo, avrebbe giovato a tutti: residuo della gestione Pereira, Matthias Hartmann ha messo su un orrore scenico pretenzioso tutto neon e specchi, abitato da una non-regia di desolante piattume.

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