Milano, non si licenzia ma col "trucco" 116mila a casa

Qualche incentivo, dimissioni forzate, mobbing: così le imprese hanno tagliato i posti

Maurizio Del Conte, presidente Afol Metropolitana e docente alla Bocconi

Maurizio Del Conte, presidente Afol Metropolitana e docente alla Bocconi

Milano -  C’è chi ha rassegnato le dimissioni, lasciando l’ambito posto fisso in piena pandemia, perché ha trovato nuove occasioni. Ma, nel mucchio, si nascondono i licenziamenti mascherati, fra escamotage e manovre delle imprese per alleggerirsi del personale a tempo indeterminato dopo essersi liberate dei contratti a termine, aggirando quindi il blocco degli esuberi in vigore da un anno. Incentivi all’esodo e “licenziamenti consensuali“, nei casi migliori. Oppure trasferimenti coatti, mobbing, pressioni per spingere alle dimissioni. Fenomeni che si nascondono tra le pieghe dei numeri sul lavoro nell’anno della pandemia.

Secondo i dati dell’Osservatorio mercato del lavoro della Città metropolitana di Milano, fra capoluogo e hinterland nel 2020 si sono registrate 116.482 cessazioni di contratti a tempo indeterminato. Il 38.59% riguarda donne (44.949) e il 61.41% uomini (71.533). Un dato solo all’apparenza positivo per le donne. "Numericamente sono meno colpite dalle cessazioni – spiega Elena Buscemi, consigliera metropolitana con delega al Lavoro – ma questo è un effetto ottico dovuto alla cassa integrazione straordinaria e al blocco dei licenziamenti che hanno congelato la condizione occupazionale. La realtà è sfortunatamente meno rosea, più spesso degli uomini sono assunte con contratti precari e con part-time involontario". Scenario che emerge anche dalle ultime analisi della Cgil milanese. E le dimissioni del lavoratore risultano "il motivo all’origine della stragrande maggioranza" delle cessazioni, con un boom riscontrato anche in altri territori lombardi. Le dimissioni rappresentano il 58,43% del totale, pari a 68.059 persone che nel Milanese - più o meno volontariamente - hanno rinunciato al posto fisso. A questo si aggiunge un 4,91% di risoluzioni consensuali, frutto di un accordo, con soldi messi sul tavolo per incentivare l’esodo. Il resto è rappresentato da pensionamenti, licenziamenti in deroga al blocco e altri motivi.

«Quello sulle dimissioni è il dato più clamoroso – spiega il giuslavorista Maurizio Del Conte, presidente di Afol Metropolitana, agenzia che gestisce i centri per l’impiego –. Fra mancati rinnovi di contratti e dimissioni, le imprese hanno già operato un importante alleggerimento della base occupazionale: una volta rimosso il blocco dei licenziamenti ci troveremo di fronte a un’ondata. Se la fine del divieto verrà rinviata a giugno bisognerà usare questo tempo per preparare la transizione, con politiche attive e risorse per la formazione. Altrimenti servirà solo a prolungare un’agonia, tenendo in vita artificialmente posti già destinati a morire".  

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