La rinuncia alla fuga per la mia terra

Andrea

Maietti

Mail dal vecchio amico Tito dalla Bassa cremonese. Sognatore della bandiera dei poveri, che per lui non può essere che rossa. Tito vede la testa di Gesù Cristo non aureolata d’oro o di una corona di spine: la vede dentro il disegno di una falce e di un martello. Coltiva l’orto come Candide, adesso che la sua bandiera è diventata rosa pallido. Mangia di quel che il suo orto produce, del poco in questi giorni di biblica siccità. A scuola i suoi nipotini vanno a piedi con altri coetanei, perché ha convinto il sindaco a istituire il pedibus. Rilegge un solo libro: “Walden, ovvero la vita nei boschi”, di Thoreau. Dice dunque la sua mail: "Siamo diventati primi in Italia per inquinamento. Porta via i tuoi nipotini dalla Bassa". Caro Tito, c’è stato un tempo in cui potevo andarmene per sempre da qui. Invitato in un liceo di Brighton, in riva al mare. I miei figli sarebbero cresciuti là, avrebbero parlato la lingua egemone del mondo, e trovato facilmente un lavoro degno, i miei nipoti ancora meglio. Ma ho sentito che sarebbe stata una fuga. Avrei lasciato la terra di pa’ Pino, quello che aspettava la lepre sotto la luna; di nonno Battista el pitalö e delle sue due stente vacche bruno-alpine; di bisnonno Pepu, el fatùr, che all’osteria leggeva la Bibbia. E sono rimasto qui, come dice di aver fatto il mio Gianni Brera: “Come una pannocchia in una pozzanghera. La pannocchia si strugge miseramente, ma intorno a lei vivono infiniti esseri che del suo disfacimento si giovano. Sentirsi consumare pian piano e non essere inutile del tutto“.

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