La rinascita della Scala, un secolo fa

Il 14 luglio 1920 il Piermarini diventava Ente autonomo: dall’era degli impresari a quella di Toscanini.

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di Elvio Giudici

Bizzarria dei centenari. Dopo la penosa pausa la Scala sta riaprendo (timidamente, pubblico mascherinato e senza il concorso di orchestra coro e direttore musicale; ma insomma ci si è rientrati) tornando a essere teatro: e giusto cent’anni fa - a sala del pari chiusa - la Scala diventava la Scala che conosciamo, ovvero Ente Autonomo. Finiva cioè la stagione degli impresari privati coi loro ghiribizzi una volta sui dieci geniali e le altre nove di ronronnante routine, e dei palchettisti: ovvero i proprietari dei palchi dove talora andavano ma più spesso mandavano la servitù o rivendevano quei posti che bisognava avere per lo status. La rivista Classic Voice domani in edicola ha mirabilmente descritto l’iter che portò a questa fausta decisione: vale la pena riassumere per sommi capi, e celebrare così un centenario che nella presente situazione di “rinascita” mi pare beneaugurante. Nel 1917 la Scala era un disastro. La guerra aveva certo pesato, ma comunque il deficit era al suo massimo, gli abbonati al loro minimo, senza riscaldamento perché c’era poco carbone, e senza idee per andare avanti: il concessionario di turno, l’imprenditore e senatore del Regno duca Uberto Visconti di Modrone, rescinde il contratto col Comune con un anno d’anticipo e il teatro si chiude.

Scendono in campo il sindaco Luigi Caldara e il senatore Luigi Albertini direttore del Corriere della Sera, dalle cui pagine parte una campagna mirata a dare il colpo di grazia all’agonizzante modello impresariale di teatro quale impresa privata. Si chiama prepotentemente in causa Arturo Toscanini, il quale è propenso a sovrintendere in pianta stabile alla vita artistica della Scala ma solo a patto che escano definitivamente di scena palchettisti, impresari, editori e mecenati di varia invadenza: il Comune acquista (un po’ con le buone e molto con minaccia d’esproprio) la proprietà dei palchi, che cede poi a un costituendo Ente privato. Il potente tamburo del Corriere, nella sua sezione milanese, scandisce le tutt’altro che serene tappe del

processo, a cominciare dal celebre editoriale (anonimo ma non tanto, la mano di Albertini si riconosce) “Il problema della Scala”, nel quale si segnala anche l’ormai indifferibile necessità non solo della riforma organizzativa, ma anche di quella tecnico-edilizia per un teatro in questo settore ormai ampiamente sorpassato. Superando i molteplici tentativi da varie parti di ostacolarlo, il 14 luglio 1920 il sindaco Caldara presiede la prima seduta della Commissione per la Scala, di cui fanno parte Annibale Albini, Luigi Repossi, Luigi Scandiani e Claudio Treves nominati dal consiglio comunale; Pietro Volpi Bassani e Vittorio Ferrari quali ultimi residui decisionali dei palchettisti; gli imprenditori Eugenio Balzan e Senatore Borletti in rappresentanza dei “donatori”, che oggi si chiamerebbero sponsor. Per la direzione amministrativa (oggi diremmo Sovrintendente) si designa l’ingegnere ed ex baritono Luigi Scandiani, che sovrintende alla ristrutturazione tecnica, mentre Arturo Toscanini diventa quello che oggi sarebbe il direttore musicale, incaricato di formare coro e orchestra come parti stabili nel neonato Ente Autonomo Teatro alla Scala: che riaprirà finalmente le sue porte il 26 dicembre 1921, con Toscanini sul podio e Falstaff in locandina. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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