La poesia che ci salvò a Pisa

Andrea

Maietti

Cosa sia la poesia hanno provato a dirlo in millanta, a prova che nessuno lo sa, come concludeva, all’ora del thè, il dottor Johnson, santone del Settecento Inglese. Non è però sempre vero che la poesia non serva a nulla di pratico. Ricordo di un giorno a Pisa con G. Piazza dei Miracoli. In coda (mezzora) per il biglietto cumulativo col quale visitare la torre, la cattedrale e il battistero. Mi dimentico di inserirvi il Campo Santo. A visita ultimata, ci dirigiamo verso la reception del Campo Santo per “Il trionfo della morte” di Buffalmacco. La gentile hostess di turno ci chiede il biglietto che non abbiamo e che lei non può rilasciare, perché deve essere incluso in quello cumulativo. G. non ci sta: cerca di convincere la signorina a fare un gesto di cortesia. La signorina è gentilmente irremovibile. G. le dice schiettamente quel che pensa della sua irremovibilità. E’ a questo punto che provo l’ultima carta: "Mi scusi – dico alla signorina – è tutta colpa mia: ho storditamente scordato di includere il Campo Santo. Lei non vuol farci il piccolo omaggio di farci entrare anche per pochi minuti, ma io un regalo glielo voglio fare lo stesso". E le porgo un foglietto sul quale, mentre lei e G. discutevano, ho appena trascritto poche righe di William Marr, poeta americano di origine cinese. La signorina è incuriosita, legge: “Sotto l’ombrello d’improvviso ho capito la differenza tra di noi. Tuttavia che gioia quando, chinandomi per darti un bacio, tu ti sei alzata in punta di piedi, per incontrarmi a metà strada”. "Madonna, che bella!", esclama. E poi fa cenno a G.: "Signora, potete entrare!".

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