di Enrico Fovanna A cinquant’anni dall’omicidio del commissario Mario Calabresi, e a 53 dalla morte del genitore, il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato dal quarto piano della questura di Milano in circostanze mai chiarite, la figlia Silvia si racconta, rivela il rapporto inedito di suo padre con il poliziotto che lo indagava e ripercorre quegli anni dolorosi, che causarono il lutto di due famiglie così diverse, ma di pari, enorme dignità. Cominciamo dalla fine, Silvia. Cosa ricorda lei e cosa provaste in famiglia quando si seppe dell’omicidio di Calabresi? "Io avevo dodici anni e mia sorella undici. Mia madre quel giorno stava andando al lavoro, e solo quando vi arrivò sentì confermare la notizia, di cui qualcuno aveva accennato alla fermata del bus. Era in pieno svolgimento il processo che il commissario aveva intentato contro Lotta Continua per diffamazione. Nei giorni successivi mia madre si sentì derubata della possibilità di arrivare alla verità. Provò dolore per la famiglia di Calabresi, certo, la poteva capire bene. Ma per noi fu un tornare indietro". In che senso? "Da quel giorno ricominciarono lettere e telefonate anonime, ed era indifferente che rispondesse un bambino o un adulto. Con precise minacce: ve la faremo pagare. Tanto è vero che mia madre andava al lavoro sempre molto preoccupata perché temeva fossimo seguite". Veniamo al 1969, la morte di suo padre. Ricorda come ha vissuto quel trauma a 9 anni? "Ho due ricordi indelebili. Il 12 dicembre, a casa, trovammo la polizia che perquisiva l’appartamento. Era molto angusto e assistemmo anche all’apertura dei regali di Natale che i nostri genitori avevano già nascosto negli armadi. E poi la notte tra il 15 e il 16 dicembre, quando apprendemmo la notizia dai cronisti che si presentarono alla porta di casa. Mamma telefonò in questura e chiese perché non fosse stata avvisata. Le risposero che ...
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