La bicicletta e la libertà delle donne

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Laura

Agnoletto Baj*

Se un giorno avrò una figlia, la metterò in sella a una bicicletta già a 10 anni, perché impari subito come deve comportarsi nella vita: Emile Zola fa dire questa frase alla sua eroina Marie nel romanzo “Il ventre di Parigi“. Perché questa frase dovrebbe stupirci, io sono stata messa su una bicicletta a 4 anni. Ma nel 1873 andare in bicicletta era riservato a pochi e non certo alle donne e sicuramente non alle bambine. Per andare in bicicletta o meglio sui velocipedi bisognava essere curiosi verso tutto ciò che era innovativo e un po’ pericoloso ma che permetteva di andare veloci e liberi per le strade, un modo nuovo di esplorare il mondo. Tutte cose “proibite” o non adatte alle bambine e alle donne, così fragili e inguainate in corsetti che non permettevano quasi movimenti. Ecco perché la frase di Zolá racchiude molti significati. In Italia, in modo particolare la cultura patriarcale legata a quella della chiesa, sottolineava la pericolosità sia della sella legata alla sua forma sia del movimento del corpo necessario alla pedalata. "La scienza" ci mise del suo sostenendo che andare in bicicletta avrebbe portato le donne all’erotomania, schizofrenia, problemi per la maternità e tanto altro. In America e in Inghilterra la bicicletta ebbe un successo molto più immediato anche tra le donne e le suffragette presero la bicicletta come simbolo di lotta per la conquista dei diritti e inventarono un nuovo abbigliamento i Bloommer (una sorta di pantaloni alla turca). Molte donne vennero insultate e aggredite con lancio di sassi per aver indossato questo scandaloso abbigliamento che permetteva un più naturale utilizzo della bicicletta.

*Docente Ied

Istituto Europeo Design

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