di Anna Giorgi E se i forfait da pandemia acuta fossero una occasione per ripensare una fashion week imbastita in una architettura che in tempi di social power, boom dell’e-commerce e poche sfilate ad effetto in luoghi magici, vedi piazza San Marco a Venezia per Dolce e Gabbana o Dubai e il deserto per Giorgio Armani, appare ormai obsoleta? I grandi player della moda e delle fiere di settore preferiscono non sbilanciarsi in previsioni, almeno fino a quando questa ulteriore ondata di Covid non mostrerà la luce in fondo al tunnel, ma è evidente che a un addio alle sfilate canoniche, o almeno ad una “pausa di riflessione“ molti big ci hanno già pensato in questi due anni travagliatissimi. Work in progress, o prendendo a prestito la filosofia di una nota consulente di moda, Uberta Zambeletti: "Wait and see". Il settore fashion sta cambiando alla velocità della luce, al punto da aver già mandato in soffitta il termine "infuencer", inutile e vuoto, per sostituirlo con quello più sostanzioso di "creator", perché non sembri che la moda si indossi soltanto per "influenzare". No - ci spiegano gli addicted sempre sui social - la moda si crea anche se non si è stilisti. E poi ci sono instagram, tik tok, e ora anche il metaverso, tsunami tecnologici che proprio in tempi di pandemia hanno stravolto estetica e tempi di tutto, della produzione, alla commerciliazzazione degli abiti, dalle tendenze, alle suggestioni delle sfilate che sono ahimè “già vecchie“ il giorno dopo. In questa lavatrice di cambiamenti così veloci, che ruolo ha ancora la fashion week tradizionale, aldilà dell’emergenza? Cucinelli, nome superprestigioso tra i primi a cancellare sfilate e partecipazioni a fiere previste per gennaio, giustifica la decisione in un comunicato ufficiale parlando di “sana presa di coscienza dell’attuale momento che l’Italia e il mondo intero stanno ...
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