Insoddisfatti della vita "I ragazzi chiedono aiuto"

Il malessere psicologico degli universitari, sempre più fragili: serve una rete. Più sportelli negli atenei e convenzioni con le associazioni del territorio

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Ilaria Cutica è docente di Psicologia generale all’università Statale di Milano.

Professoressa Cutica, come stanno gli universitari?

"Abbiamo cercato di capirlo con un’indagine che ha coinvolto un campione di ottomila studenti tra i 19 e i 25 anni. È emerso che più del 20% è insoddisfatto della vita, un altro 10% è molto insoddisfatto. E colpisce, considerando che è la fascia d’età che dovrebbe essere propositiva, dove ci si affaccia alla vita e si inizia un nuovo percorso...".

E invece?

"C’è un ripiegamento su se stessi. E questa alta insoddisfazione è coerente con un altro dato dell’indagine, che andava a valutare l’umore e la possibilità che ci fosse una flessione verso la tristezza e la depressione. Il 12% di chi ha risposto rientrava nei criteri per una diagnosi di depressione clinica, non si dichiarava solo triste. Certo, per fare una diagnosi ci vuole altro. Ma abbiamo rilevato indicatori chiari di malessere".

Quanto ha inciso il Covid?

"L’aumento degli accessi nei reparti di neuropsichiatria è un dato di fatto, come quello dei tentati suicidi e di episodi di autolesionismo. Rispetto agli standard pre-pandemia, il livello di soddisfazione dei nostri ragazzi è più basso, come è più alta la tendenza alle tematiche depressive, anche se dobbiamo ricordarci che la fragilità degli universitari la conosciamo già da prima e con studi che hanno fatto emergere che hanno una salute mentale più precaria rispetto a chi, a pari età, non frequenta l’università".

Perché?

"È come se avessero dei fattori di stress che li rendono più vulnerabili. Credo ci siano una serie di concause: ci sono sfide diverse, c’è chi lascia casa per la prima volta, l’adattamento a un nuovo ambiente, lo stress accademico vero e proprio legato agli esami o al senso di frustrazione. E c’è un supporto sociale instabile: ci si rimette in gioco da zero, con nuovi compagni di corso e, in alcuni casi, i primi vincoli economici. È come se il percorso universitario accelerasse il processo di sviluppo dell’identità. Non si è ancora fatti e finiti, ci si interroga sul chi si vuole diventare, se si stia facendo il percorso giusto e si possono aprire delle micro-crisi che mettono in discussione".

Che fare?

"Le università hanno preso coscienza del malessere degli universitari, hanno aumentato il numero di psicologi e psicoterapeuti per far fronte alle richieste di aiuto che crescono anche nell’ambiente privato, come ha rilevato l’Ordine degli psicologi: c’è stato un aumento del 35% delle richieste di psicoterapia nella fascia dai 18 ai 24 anni. La sensazione è che sia una rincorsa continua per affrontare il problema. Oltre all’organico delle università potenziato, gli atenei si stanno attrezzando per aumentare le convenzioni con le strutture del territorio, per indirizzare i giovani verso servizi che possono aiutarli anche quando si va oltre a problematiche di ambito accademico. Dobbiamo fare rete".

Chiedono aiuto i ragazzi?

"Sì, anche se non tutti. Sono più consapevoli che la sofferenza mentale è pari a quella fisica rispetto agli adulti, ma bisogna ancora lavorare sullo stigma culturale che resiste, affinché non ci sia imbarazzo nel chiedere aiuto. A volte resta la vergogna o il voler fare da soli, il non volere ammettere a se stessi di avere bisogno degli altri. Serve un lavoro culturale per sgretolare questa resistenza prima che subentri il sentimento di impotenza, del “tanto è tutto inutile“".

Simona Ballatore

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