Vincnzo
Paglia *
Perché non possiamo non dirci cristiani, scriveva Benedetto Croce in un momento difficile della storia del nostro Paese. E aveva ragione. Forse potremmo (dovremmo!?) rettificare: “ebrei-cristiani”. Nelle pagine bibliche è deposta una sapienza millenaria che sta alla radice della cultura occidentale, assieme ad altre come, ad esempio, quella greco-romana. La tradizione biblica rappresenta un immenso patrimonio di cultura che ha innervato in profondità il tessuto stesso della modernità. Le parole bibliche come anche le sue immagini – per gli ebrei e i cristiani hanno l’impronta del divino – ci aiutano a scendere più in profondità nella storia umana. Anche quella di questo tempo di pandemia. Mi torna in mente quel che diceva il grande teologo protestante del secolo scorso, Karl Barth: il cristiano ha in una mano la “Bibbia” e nell’altra il “giornale”.
È decisivo per i credenti leggere la storia nelle sue profondità alla luce delle pagine bibliche. Giovanni XXIII, in un momento di delicatissimo cambiamento della vita della Chiesa e del mondo, parlava dell’importanza di leggere “segni dei tempi”, per scorgere nella vicenda umana i segni che invitano ad una intelligenza più attenta e profonda di quel che sta accadendo. La pandemia – mi chiedo – non è uno di questi segni?
Non c’è bisogno quindi di comprendere più in profondità quel che è accaduto e scorgere con più creatività quel che accadrà domani? Lo sappiamo ormai: il mondo non sarà più lo stesso, e probabilmente è giusto che sia così. Se volessimo leggere l’oggi del mondo aiutati dalla tradizione biblica ci vengono in mente non poche immagini: dalle “piaghe d’Egitto” all’“angelo sterminatore” dell’Esodo o anche al “diluvio universale” della Genesi quando, alle origini, la corruzione aveva oltrepassato il limite della sostenibilità.
*arcivescovo
e presidente della Pontificiaaccademia per la vita
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