
Piersanti Mattarella tra le braccia del fratello Sergio la mattina del 6 gennaio 1980
I pm della Procura di Palermo sono convinti che sia stato lui a sparare a Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana – e fratello del futuro presidente della Repubblica Sergio – assassinato il 6 gennaio 1980. Sarebbe l’ennesimo omicidio attribuito al killer di Cosa Nostra Antonino Madonia, secondogenito classe ’52 del boss di Resuttana Francesco e alleato dei Corleonesi di Totò Riina ai tempi della seconda guerra di mafia.
C’era lui, dicono le sentenze, in sella a uno dei due motorini che la mattina del 30 aprile 1982 affiancarono la Fiat 132 che stava portando Pio La Torre nella sede del Pci di Palermo: decine di colpi esplosi in corsa per assassinare il padre della legge sulla confisca dei patrimoni ai mafiosi e l’autista Rosario Di Salvo.
Sempre lui a imbracciare il kalashnikov la sera del 3 settembre 1982 in via Carini: una raffica di proiettili per ammazzare il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Ancora lui a far detonare i 75 chili di esplosivo stipati in una Fiat 126 verde che il 29 luglio 1983 dilaniarono il magistrato Rocco Chinnici, il maresciallo Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere di condominio Stefano Li Sacchi.
Senza dimenticare l’omicidio del vice capo della Squadra mobile Ninni Cassarà e il fallito attentato al giudice Giovanni Falcone all’Addaura. Detenuto a Opera in regime di carcere duro per sei ergastoli, ora si scopre da un verdetto della Cassazione che il settantatreenne ha intrapreso una battaglia legale per ottenere il permesso di cucinare in cella h24.
Permesso che gli è stato inizialmente accordato dal magistrato di sorveglianza, ma che poi il Tribunale, su reclamo del Dap, ha annullato il 14 marzo, confermando la norma interna che impone ai detenuti al 41-bis di riconsegnare pentolame e fornelletto a gas dalle 20 alle 7. Madonia non si è fermato e si è rivolto alla Suprema Corte, sostenendo che il divieto di cucinare nelle ore serali e notturne "costituisce una misura afflittiva, che comporta un pregiudizio al diritto di alimentarsi e incide sul diritto alla salute, dal momento che inibisce per ben undici ore il diritto alla cottura dei cibi, riconosciuto dalla sentenza numero 186 del 2018 della Corte Costituzionale". E ancora: il mafioso ha evidenziato le differenti regole previste per i reclusi comuni, che invece non sono sottoposti a limitazioni. Per gli ermellini, il Tribunale di sorveglianza ha rilevato che "l’imposizione di limiti agli orari in cui è consentito cucinare nelle singole celle è stata motivata dal Dap soprattutto in base a ragioni di igiene e di salubrità degli ambienti, che vengono preservate anche evitando la concentrazione di fumi e odori nelle stesse ore, mediante la previsione di fasce orarie diverse per i detenuti sottoposti a regimi detentivi diversi".
Di più: le limitazioni orarie per i detenuti al 41-bis appaiono "ragionevoli" anche perché, "trascorrendo la maggior parte della giornata nella propria cella, hanno di fatto una più ampia possibilità di scaldare cibi e bevande durante il giorno"; a differenza dei comuni, "che, trascorrendo molte ore fuori dalle camere, vedrebbero fortemente compresso il diritto di cucinare, se il divieto riguardasse anche per loro la medesima fascia oraria". Infine, a parere della Cassazione, il divieto "non incide sulla funzione rieducativa della pena e non comporta un trattamento inumano e degradante, corrispondendo al contrario alle abitudini di vita della maggior parte della popolazione".