Via Spaventa, viaggio nell’ex rifugio anti-aereo

Tra oblò e uscite di sicurezza con i tecnici di Mm

Il rifugio anti-aereo di via Spaventa

Il rifugio anti-aereo di via Spaventa

Milano, 21 febbraio 2019 - Un luogo storico a prova di bomba e di gas. Ma anche un sotterraneo così particolare che scatena suggestioni immaginifiche: sembra di trovarsi dentro un sottomarino abbandonato. È l’affascinante rifugio antiaereo di via Spaventa: è stato realizzato nel 1940 ed era destinato agli operai dell’acquedotto, addetti al pronto intervento in caso di bombardamenti. Il ricovero è attualmente di proprietà di Metropolitana Milanese. Da qui, in zona via Meda, partono ancora oggi le squadre di tecnici del servizio idrico e in questa sede c’è pure il laboratorio per l’analisi dell’acqua potabile. Sotto la frenesia odierna, a circa tre metri e mezzo sottoterra, il rifugio della Seconda Guerra Mondiale. Noi abbiamo la fortuna di visionarlo sotto la supervisione di alcuni tecnici di MM che si occupano di gestire il suo patrimonio immobiliare. Ad aiutarci anche i preziosi chiarimenti di Maria Antonietta Breda, assegnista di ricerca del dipartimento di Architettura del Politecnico di Milano, che nel 2014 lo ha visitato, eseguendo un rilievo planimetrico e stilando poi una relazione. Il percorso per accedere all’ingresso è tortuoso: una scalinata con gradini in pietra conduce ad un lungo corridoio. Da qui si stacca una galleria composta da quattro segmenti normali che formano una sorta di «greca». Non è un capriccio architettonico: « L’andamento “a spezzata” serviva a contenere l’eventuale spostamento d’aria causato dall’esplosione di una bomba in prossimità dell’accesso, non protetto da porta antiscoppio: ancora oggi all’ingresso c’è solo una leggera porta metallica», chiarisce l’architetto Breda.

Alcune tubature recenti costringono a procedere piegati in avanti. E si arriva finalmente al rifugio. Misura 67 metri quadri, ma sembra molto più grande, un labirinto di passaggi immersi nel buio, nel silenzio e nell’umidità che trasuda dal soffitto. Dice l’esperta: «Il primo ambiente è un antiricovero, con gabinetto, a seguire ci sono tre stanze e una piccola camera con uscita di sicurezza a pozzo. La copertura, in calcestruzzo di cemento armato, ha un’altezza media di 2,6 metri. Il pavimento è in cemento lisciato e bocciardato». Lungo tutte le pareti sono ancora presenti degli oblò d’epoca dall’«effetto-sottomarino». «Gli oblò servivano per la ventilazione interna e avevano il vantaggio di poter essere chiusi dall’interno. Comunicavano con la camera d’aria che correva attorno alla superficie perimetrale del rifugio e dovevano prendere aria da appositi camini comunicanti con l’esterno, non ancora individuati», puntualizza la studiosa. In buone condizioni anche le quattro porte metalliche antiscoppio, di un modello piuttosto inusuale. Ma la vera singolarità del posto è la porta lignea antigas, «una vera rarità», conservatasi discretamente mentre il suo quadro di sostegno è parzialmente marcito.

E in una minuscola stanzetta compare pure un impianto con manovella. A che serviva? Era «l’uscita di sicurezza a pozzo, di cui rimane in sede l’impianto a manovella per il sollevamento del tombino che dà sul piazzale esterno». Qua e là si possono ammirare ancora i resti dell’impianto d’illuminazione. Il rifugio è stato ripulito nel corso degli anni. Ad essere spazzato via ogni arredo interno, come le panche denominate «sedute». Ma il ricovero non ha perso per nulla il suo fascino.

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