Milano, Ernani torna alla Scala tra applausi e fischi

Contestazione non solo dai “soliti” loggionisti, ma anche dalla platea

Ernani

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Milano, 1 ottobre 2018 - Dopo 36 anni di assenza, è tornata fra applausi e fischi (tanti) Ernani alla Scala, come spesso succede quando vengono messe in scena i lavori di Verdi, che scatena le passioni del pubblico. L’opera mancava dal Piermarini dal 1982 quando andò in scena l’allestimento di Luca Ronconi diretto da Riccardo Muti, con sul palco Placido Domingo, Renato Bruson e Mirella Freni. Un cast stellare. Forse per questo nessuno aveva avuto il coraggio di riproporla, e forse per questo il sovrintendente Alexander Pereira ha chiamato il regista tedesco Sven-Eric Bechtolf, che a Milano aveva già firmato “Haensel und Gretel”. Stavolta Bechtolf ha usato l’espediente del teatro nel teatro: una compagnia decide di mettere in scena Ernani, usando scene dipinte, costumi e gestualità tipici dell’Ottocento. E quando il pubblico è avvinto dalla storia del nobile-bandito innamorato di Elvira che vuole sollevare una rivolta contro re Carlo, arrivano azioni “di disturbo” per ricordare che è solo una recita. Ma al pubblico non è piaciuto per nulla. Fra terzo e quarto atto è sceso il sipario per il cambio di scena e sono uscite due vallette con in mano cartelli con su scritto «breve interruzione» e «tre minuti»: non solo dal loggione, ma anche dalla platea, sono piovuti buu e urla:«Vergogna, questo sarebbe Verdi, non è il varietà». Per lui fischi sonori anche alla fine, come per il soprano Ailyn Perez che interpretava Elvira. Dieci minuti di applausi invece per il coro, l’orchestra diretta da Fischer e tutto il cast da Francesco Meli (Ernani), Luca Salsi (Don Carlo) e soprattutto Ildar Abdrazakov.

Ci sono molti modi di ammazzare l’opera italiana. Uno dei più sicuri è oggi chiamare un regista tedesco che, reputandosi grande intellettuale, ha scoperto che il nostro melodramma è molto melodrammatico: colpa grave da esorcizzare quanto più possibile. Alle prese col verdiano Ernani, dunque, Sven-Eric Bechtolf (grande attore per sciagura autopromossosi regista) ha l’idea – originale come l’orologio a cucù – del teatro nel teatro. Su di un palcoscenico abbastanza scalcinato si monta a vista, tra macchinisti e inservienti delle pulizie, un melodrammone infarcito di cose come l’onore anteposto a tutto, la vendetta più tremenda, l’amore più delirante: l’intellettuale “che sa” ci vuole rendere edotti di quanto siano cose assurde, e dunque va giù pesante col prenderle in giro. Grossolane cartapeste dipinte, costumoni ipercolorati, truccature raffazzonate (e la cara vecchia cartolina Liebig si mixa con l’avanspettacolo d’antan); gestualità maschile tutta mani sul cuore e femminile alla mani appese per aria in mancanza delle tende della Bertini; cinque angioloni con grandi ali piumate che caracollano su e giù nel duetto d’amore; e siccome il second’atto si apre con un Galop in tempo di 2/4, ci si piazza pure due smandrappate cancaneuses che ammiccano birichine al pubblico e addirittura compaiono nella pausa con cartelli alla Brecht per comunicare appunto che siamo in pausa. A questo punto, in teatro l’inferno: non solo dal loggione (che non farebbe notizia giacché le cocorite ivi stanziali fischiano sempre, a prescindere), ma dappertutto si sono levate grida di buffone, vai a casa, non siamo al varietà, vergogna e via protestando. Per una certa mentalità registica, successo pieno perché più si viene fischiati, più si è intelligenti a fronte di “chi non capisce”: ma se si trova ridicolo certo melodramma, perché prenderlo in giro mettendolo per così dire tra le virgolette d’uno spettacolo “alla vecchia maniera”? Il risultato è solo uno

spettacolo vecchio e banalmente di maniera. Il direttore Ádám Fischer è degno compagno di Bechtolf nella totale avversione al melodramma melodrammatico: tempi scanditi con un metronomo che sembra la mazza del fabbroferraio; congenita incapacità di far cantare l’orchestra, che sta addosso al canto impedendogli quel respiro interno fornito dai rubati in assenza dei quali lo si asfissia; dinamica niente, colori niente, chiaroscuri niente, insomma niente di niente. Serata salvata solo da tre quarti del cast, la parte maschile: giacché Ailyn Perez è una zanzarina alle prese con scrittura per lei proibitiva, sicché si sente (poco) solo quando s’avventura nel registro superiore, al centro e in basso solo aria calda. Francesco Meli è protagonista magnifico: linea luminosa, morbidissima, screziata da un fraseggio che giovandosi della spettacolosa dizione trova – nonostante direzione tanto asfissiante - una miniera d’accenti e di chiaroscuri. Luca Salsi non gli è da meno: grande voce, governo da manuale della linea, fraseggio da vero grande artista. Lo stupendo canto di Ildar Abdrazakov (bellezza timbrica, solidità e morbidezza della linea, accento curatissimo) è un consolante viatico per l’Attila che impersonerà il 7 dicembre prossimo

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