Delitto Umberto Mormile, la mafia e i servizi segreti: svolta dopo 32 anni

Umberto Mormile, educatore di Carpiano, venne ammazzato a Opera nel 1990 con sei colpi di pistola. Il fratello Stefano: "Fare luce sui rapporti tra Cosa nostra e servizi segreti deviati"

I carabinieri sul luogo dell’omicidio di Umberto Mormile

I carabinieri sul luogo dell’omicidio di Umberto Mormile

Carpiano (Milano), 23 luglio 2022 - È un piccolo passo. Non enorme, non la luce in fondo al tunnel, ma quella che potrebbe far sparire alcune ombre di questa storia. Il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia Alessandra Dolci e il pm Stefano Ammendola hanno chiesto due giorni fa il rinvio a giudizio dei collaboratori di giustizia Salvatore Pace e Vittorio Foschini: esaminando le testimonianze e le carte di un’inchiesta iniziata più di 32 anni fa, emergerebbe un ruolo non secondario nell’esecuzione dell’omicidio di Umberto Mormile, educatore trentaseienne al carcere di Opera ucciso con sei colpi di pistola l’11 aprile del 1990. Per il fratello di Umberto, Stefano, 66 anni, è "un piccolo grande passo".

Come ha accolto questa notizia? "Con sorpresa. Una decisione inaspettata che fa seguito a quella coraggiosa, qualche mese fa, del giudice per le indagini preliminari Natalia Imarisio, che ha respinto la richiesta di archiviazione della Dda. Ora il rinvio a giudizio è un altro tassello, anche se il nostro obiettivo non è stanare Foschini e Pace".

E qual è? "Con l’avvocato Fabio Repici ci siamo battuti per non fare archiviare un’indagine che secondo noi ha ancora molto da dire. C’è bisogno di fare luce, di aprire un “vaso di Pandora“ sui rapporti tra mafia e servizi segreti deviati, sul ruolo della Falange armata che a suo tempo rivendicò l’omicidio di mio fratello Umberto".

Perché Umberto è stato ucciso? "Perché aveva scoperto favori e rapporti tra funzionari dei servizi segreti e mafiosi, in particolare i fratelli Papalia, Antonio e Domenico, che ricevevano in cella i funzionari deviati e favori. Mio fratello fece un grande errore e lo pagò".

Quale errore? "Un detenuto si lamentò con lui perché non aveva ottenuto il permesso premio, mentre Papalia, che era criminale di alto calibro, sì. Mio fratello, in modo anche ironico, gli disse: “Tu mica parli con i servizi segreti”. Qualcuno sentì e gliela fecero pagare".

Cosa si aspetta se i due collaboratori di giustizia verranno rinviati a giudizio? "Che attraverso il dibattimento possano venire a galla altre circostanze affrontate solo superficialmente. I collaboratori avevano già parlato del fatto che mio fratello avesse scoperto troppo. Eppure in questi anni abbiamo dovuto ingoiare tanti bocconi amari".

Sta parlando anche della compagna di Umberto, Armida Miserere? "Soprattutto lei. Quando hanno ucciso mio fratello è stata la prima a impegnarsi nella ricerca della verità. Conosceva bene l’ambiente, era direttrice di carceri, aveva avuto intuizioni rimaste inascoltate. Poi, nel 2003, si è suicidata. Sono certo che qualcuno l’abbia convinta a farlo: era una donna forte che mai si era ripresa dalla morte di Umberto". 

E lei? Come ha vissuto questi anni? "Quando è morta Armida, ho avuto un momento di sconforto, di rabbia, mi sono detto basta. Ho pensato di smetterla con le ricerche quando hanno iniziato a dire che Umberto era un corrotto. Non che non avessi il desiderio di verità, anche per la figlia di Umberto, oggi una donna e mamma meravigliosa. Mi sentivo però avvilito". 

Cosa l’ha convinta a continuare la battaglia per suo fratello? "Avere incontrato, per caso, persone come Salvatore Borsellino ( fratello del magistrato Paolo, ndr ) e altri familiari di vittime di mafia. E poi l’avvocato Repici, che sempre si è battuto. Mi sono sentito vinto, per un attimo. Poi è stata più forte la voglia di fare luce. Per me, per la mia famiglia, ma anche per tante altre storie di persone che si intrecciano con la nostra. Quella telefonata, 32 anni fa, in cui mi dicevano che Umberto era morto, la sento ancora in testa".

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