Milano, al lavoro dopo due infarti col defibrillatore che si indossa

La storia di Fabrizio, 56 anni, dimesso dall'ospedale grazie a un innovativo dispositivo

Fabrizio Vaj con il dottor Daniele Malaspina

Fabrizio Vaj con il dottor Daniele Malaspina

Milano, 29 agosto 2018 - «Ho fatto per trent’anni il collaudatore di auto sportive. Adesso collaudo defibrillatori», sorride Fabrizio Vaj al terzo piano dell’ospedale San Carlo Borromeo, dove ha un soprannome: «Mi chiamano “il guerriero”». È qui per una visita, e come sia possibile è cosa abbastanza straordinaria, anche se mai quanto la sua capacità di scherzarci su.

Fabrizio è in cura all’ambulatorio scompenso cardiaco di questo presidio dell’Asst Santi Paolo e Carlo dal 2009; ha 56 anni e ha avuto due infarti, il primo quando non ne aveva compiuti 46. Il secondo lo scorso aprile, e da allora è stato ricoverato quattro volte, a causa di un incastro di complicanze davanti al quale anche il più galileiano medico del servizio sanitario nazionale non esita a parlare di sfortuna. Sarebbe ricoverato anche adesso, se non fosse per l’apparecchio che indossa anche se non si vede, a meno che lui non voglia: il «vest», un defibrillatore esterno anch’esso piuttosto straordinario. Disponibile da poco più d’un anno, questo è il primo utilizzato da un ospedale pubblico a Milano città.

Daniele Malaspina, che guida l’unità operativa semplice di Elettrofisiologia ed elettrostimolazione, l’ha chiesto e ottenuto dall’ospedale per Fabrizio, risparmiandogli due mesi di ricovero. «Io faccio infarti personalizzati – racconta Fabrizio –. Nel senso che quando succede, non penso mai di averne uno». Al primo «credevo di non aver digerito. Alla terza camomilla per fortuna ho chiamato mia sorella; lei ha riconosciuto il numero ma non la voce; dopo 30 secondi mi hanno chiamato i soccorritori». Lo portarono al San Carlo, l’équipe del dottor Malaspina (tre medici, tre infermiere specializzate, una tecnica, seicento impianti all’anno) gli impiantò un defibrillatore con pacemaker. Uno dei migliori sul mercato, all’epoca, ma poi si scoprì un difetto nel catetere e i pazienti furono richiamati per sostituirlo. Per Fabrizio la sostituzione sarebbe stata totale perché intanto lo stent nella succlavia sinistra si era occluso. «Succede nel 10, 15% dei casi», sospira Malaspina, ma a lui è successo, e il nuovo defibrillatore sarebbe andato a destra. Il secondo infarto è arrivato quando era imminente l’operazione. «Quella volta non me ne sono proprio accorto. Per fortuna avevo un appuntamento qui...» Con un quadro clinico del genere, un paziente deve fare sei mesi di «duplice antiaggregazione»: alla cardioaspirina si aggiunge un altro farmaco, più potente. E il sangue di Fabrizio, a questa terapia, è particolarmente recettivo: così fluido da causargli «sanguinamenti difficili da controllare», spiega il dottore. All’impianto del nuovo defibrillatore si è formato un ematoma, e non si riassorbiva, nonostante due interventi, anche col chirurgo plastico. «Un problema grosso – chiarisce Malaspina –. Se si infetta il device è un disastro, si rischia un’endocardite mortale».

D’altra parte Fabrizio ha bisogno del defibrillatore: il suo cuore è troppo indebolito dalla cardiomiopatia post-infartuale, è a rischio di morte improvvisa. Per impiantarne un altro bisogna aspettare la fine della terapia, a ottobre, e in questi casi un paziente si tiene in ospedale, sotto stretto monitoraggio. Con i costi che ne derivano, prima di tutto per lui. Perché Fabrizio, che ha dovuto lasciare i collaudi d’auto dopo il primo infarto, oggi è responsabile della qualità in una ditta che produce viti, e accumulando tanti giorni di malattia ha temuto seriamente di perdere il lavoro: «Diciamo che ho trovato un po’ di insensibilità». Il deus ex machina è stato il «vest»: una scatoletta alla cintura, la batteria si carica come un cellulare, gli elettrodi sono in un giubbetto che s’infila come una canottiera. «La cosa importante è la precisione», spiega il medico; oltre al sostanziale azzeramento dei falsi positivi, questo defibrillatore in caso d’anomalia chiede conferma al paziente (che con una fibrillazione ventricolare di norma è svenuto), oltre ad avvertire l’ospedale. «È una soluzione ponte per tornare a casa in sicurezza», chiarisce Malaspina, che monitora i parametri di Fabrizio in tempo reale in telemedicina; un ingegnere li segue h24. Tra qualche giorno, appena si sarà abituato, Fabrizio tornerà al lavoro (e lavorare gli piace, a sentire come parla delle sue viti). È già tornato alla musica che ama, jazz e fusion: basta sentirlo parlare della batteria, delle sue (pare 13) chitarre. «Certo, fisicamente non sono più come prima, ma sono qui a raccontarla».

Non è sempre così zen: «È brutto convivere con questo, all’inizio ero molto angosciato. Quando ho l’ansia cerco conforto dal dottore, dall’équipe: chiamo, oppure lo capiscono guardandomi in faccia. Sono arrivato qui a 45 anni, sono la loro mascotte». Fabrizio, ottimista di indole e collaudatore per vocazione, si fida delle macchine («Dopo che mi hanno messo il primo defibrillatore non ci ho più pensato»), ma si fida soprattutto dei suoi dottori: «C’era Malaspina qui nel 2009, quando ho fatto la prima operazione. Mi ricordo quando mi ha detto di stare attento a quello che facevo ma di non castrarmi, la vita è troppo importante. Sono formidabili, interessati davvero ai miei problemi». Quando sarà tutto finito, dicono, si vedranno lontano dall’ospedale; forse per sentire un po’ di musica sui Navigli.

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