Dante in sogno e le amare castagne

Claudio

Negri

altra notte ho sognato di essere ospite nella casa di Dante - la casa fiorentina presumo, quindi prima dell’esilio - e trattato alla buona, ma con rispetto onesto e schietto, come tra persone che si stimano pur non essendo tra loro in dimestichezza amicale. Troppo e ingiustificato onore nei miei confronti, ma nei sogni si sa succede. Eravamo in una saletta non troppo adorna, da un finestra entravano la luce e le voci antiche della città del giglio. A un certo punto compariva una donna (la moglie Gemma?) recando un piatto di castagne lesse. Dante, seduto vicino a me, indicava le castagne come a dirmi: "Oggi a desco non s’ha che codeste". Un sogno curato nei dettagli: il Sommo Poeta mi parlava proprio come io, letterato d’accatto, m’immagino si esprimesse nella vita quotidiana, un po’ Divina Commedia e un po’ Armata Brancaleone. Ma tanto basta. Mi sveglio e rotolo nello studiolo a cercare la parola “castagna” nell’Enciclopedia Dantesca. Niente. Diteggiando però poi su Google mi spunta dritta la Torre della Castagna, che sta a due passi dalla casa di Dante a Firenze: era un luogo in cui i Priori si riunivano per discutere e deliberare in sicurezza e riservatezza. Torre della Castagna: in fiorentino la castagna era detta ballotta: la si usava nelle votazioni. Più castagne in un sacchetto, più voti a favore di una certa delibera rispetto ad altra. Da qui il termine ballottaggio. Anche per designare i grandi elettori veneziani del Doge si usavano le balòte, intese lì come palline. Ma le castagne venivano prima. Non lo sapevo - o forse l’avevo dimenticato – e comunque Dante ha avuto la compiacenza di ricordarmelo: "Anco io, per parte guelfa e poscia da Priore – mi avrebbe detto poi in un seguito del sogno, con l’enfasi di Brancaleone - ne ho vedute di siffatte ballotte". Castagne dal fondo amaro del suo imminente esilio senza fine: perché l’Italia, dal Trecento a oggi – e sono proprio parole sue – sembra lo stesso, medesimo bordello.