Coronavirus: "Io sopravvissuto, ma ho perso mio padre"

Luca Perego, presidente del Consiglio di Municipio 9, ce l’ha fatta. Ricoverato lo stesso giorno del genitore, lo strazio per la sua scomparsa

Luca Perego, 46 anni, sopra in un’immagine prima della malattia e, a destra, ricoverato

Luca Perego, 46 anni, sopra in un’immagine prima della malattia e, a destra, ricoverato

Milano, 31 marzo 2020 - Il sorriso dei suoi bambini lo ha visto ieri pomeriggio dopo 20 giorni trascorsi in ospedale tra le morse del coronavirus. Un sorriso filtrato dai vetri al balcone, che ha scandito la fine dell’incubo. "Sono un sopravvissuto". Ce l’ha fatta Luca Perego, 46 anni, agente di commercio e presidente del Consiglio del Municipio 9. Una gioia che però è scalfita dallo strazio di aver perso il papà Emilio, che il Covid-19 si è portato via per sempre. "Aveva 70 anni, era in gamba, faceva il volontario nella Croce verde lissonese". Due storie parallele, quella di padre e figlio: "Siamo stati ricoverati lo stesso giorno, mercoledì di tre settimane fa, lui al Niguarda e io al Bassini di Cinisello. Il venerdì della settimana dopo, è mancato. Ho cercato di tenermi dentro il dolore, di congelarlo, di non farlo esplodere anche se era fortissimo e devastante. Ho cercato la forza in mio padre, come se si fosse sacrificato per me. Dovevo farcela anche per lui. E avevo un obiettivo: tornare dalla mia famiglia, dai miei bambini, il mio pensiero felice". Ora può raccontare la sua storia a lieto fine, recluso in un appartamento del quartiere Comasina. "Mia madre Anna si è trasferita con mia moglie Bruna e i miei bambini Marco, di 10 anni, e Matteo di 3, lasciandomi la casa. Abitiamo nella stessa palazzina: mi portano il cibo davanti alla porta e io lo prendo appena vanno via". Per evitare qualsiasi contatto.

In ospedale è stato ricoverato dopo due settimane di polmonite e un primo tampone negativo. "Chi è fuori dagli ospedali non può capire quello che succede. Sei dentro una macchina che non si ferma mai, con medici e infermieri sempre in azione. Ma anche tutto il resto del personale, dagli assistenti agli addetti alle pulizie. Io cercavo di chiedere aiuto solo se necessario, per non aumentare il carico di lavoro già pesantissimo. Se sono vivo, lo devo a loro". Ma anche "al casco con l’ossigeno, che ho tenuto per 13 giorni: era diventato la mia coperta di Linus". Soprattutto "mi sono aggrappato alla mia forza d’animo e alla mia volontà: ho fatto di tutto per restare attivo e per tenermi su di morale. Non stavo sdraiato supino ma seduto o al massimo su un fianco, oppure a pancia in giù: aiuta a respirare. Dopo i primi due giorni, durante i quali sul cellulare leggevo solo brutte notizie, ho cancellato tutte le chat. Perché a furia di leggere di morti, mi veniva l’angoscia e pensavo di essere spacciato. Chiamavo la mia famiglia tutte le sere e giocavo al cellulare per avere la mente distratta e mantenerla attiva". Due i momenti più duri: "Guardando i valori, un giorno la dottoressa ha disposto un aumento di ossigeno. Mi sono preoccupato poi mi sono accorto che la membrana del casco aveva un taglio: era quello il problema, e me l’hanno cambiato. Ma il colpo devastante è stato la morte di mio padre. Vedevo i messaggi arrivare e non li aprivo. Avevo già capito".

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