Milano, quando Battisti accusò Barbone: "Era lui l'infame"

"Marchino portò le armi nel covo". Ma il killer di Tobagi lo smentì

Cesare Battisti dietro le sbarre durante il processo per l'omicidio Torregiani

Cesare Battisti dietro le sbarre durante il processo per l'omicidio Torregiani

Milano, 16 gennaio 2019 - Quando  lo arrestano nel giugno ’79, nell’appartamento di via Castelfidardo in pieno centro, a due passi da Brera, i poliziotti trovano pistole, un fucile, anche due bombe a mano. Cesare Battisti all’epoca ha appena 26 anni ma già un passato da bandito di provincia, rapine a Frascati, a Sabaudia, lui originario di Latina. Un altro colpo a Milano quando si trasferisce al Nord, poi il carcere a Udine dove conosce Arrigo Cavallina, il fondatore dei Proletari armati per il comunismo (Pac) che lo arruola tra i militanti in vista della lunga catena di omicidi che di lì a poco - tra il ’78 e la primavera del ’79 - il gruppo porterà a termine.

Però nel processo per l’uccisione del gioielliere Pierluigi Torregiani che comincia a Milano nel febbraio ’81, l’unico al quale prenderà parte di persona, Battisti risponde solo delle accuse di banda armata e di quelle armi trovate nel covo. E allora si difende e a sua volta accusa un certo «Marchino» di aver portato le munizioni nell’appartamento intestato all’insegnante Silvana Marelli, anche lei finita in manette. «Seppi poi in carcere – dice Battisti nell’aula della Corte d’assise – che Marchino è quel verme provocatore infame di Marco Barbone».

Terrorista pentito da qualche mese, Barbone è uno dei giovanissimi sanguinari della Brigata 28 Marzo che nel maggio dell’anno prima ha ucciso il giornalista Walter Tobagi e che poco dopo nega, sentito come teste in quella stessa aula, di aver mai frequentato via Castelfidardo. E sulla personalità di Giuseppe Memeo, uno degli assassini del gioielliere Torregiani, Barbone dice: «Era un tipo che amava vantarsi: basti dire che nella sua stanza appese la fotografia che lo ritraeva incappucciato e con la pistola puntata verso la polizia in occasione degli incidenti avvenuti a Porta Ticinese». È la celebre foto simbolo degli “anni di piombo”, maggio 1977 in via De Amicis, quando Memeo spara, ma almeno in quel caso non è lui ad uccidere.

Nell'aula del processo Torregiani, che per Battisti si concluderà con una condanna a 13 anni e 5 mesi, quando parlano i “pentiti”, gli imputati nella gabbia chiedono di uscire o si fanno espellere. Il 28enne bergamasco Sergio Martinelli, ex delle Squadre armate operaie, descrive così il proprio pentimento: «Ho deciso di parlare per problemi di coscienza ma anche perché ho compreso il danno che la lotta armata ha reso alla classe operaia. Una volta i partigiani veri combattevano contro i fascisti, oggi si spara sugli agenti dell’ordine che fanno questo mestiere per vivere e sono degli sfruttati come noi. Non si può ammazzare in nome del comunismo, quando poi i nostri capi scappano con i soldi».

mario.consani@ilgiorno.net

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