Caso camici per Covid, Bongiovanni parlerà coi pm. Dama voleva fornirne altri 200mila

L’azienda del cognato del presidente Attilio Fontana ebbe la prima commessa dalla Regione Lombardia

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Vuole essere interrogato Filippo Bongiovanni, l’ormai ex dg di Aria, la centrale acquisti della Regione Lombardia. E intanto si scopre che una fornitura aggiuntiva di altri 200.000 ormai famosi camici era la proposta avanzata ad Aria lo scorso 22 aprile su "indicazione" dell’assessore Raffaele Cattaneo da Dama spa, l’azienda di Andrea Dini, cognato del presidente della Lombardia e di cui la moglie di Attilio Fontana detiene una quota. L’ipotesi che si potesse trattare di una nuova “donazione“ sembrerebbe remota.

Bongiovanni, indagato per turbata libertà nella scelta del contraente sulla fornitura originaria poi in parte trasformata in donazione da parte di Dama, ha chiesto ai magistrati di essere ascoltato. Inutile dire che gli inquirenti attendono con curiosità di capire se il dirigente avrà - come sembra - l’intenzione di fornire un aiuto concreto alle indagini.

Nel frattempo, nell’ inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dai pm Paolo Filippini, Luigi Furno e Carlo Scalas, gli investigatori del Nucleo speciale di polizia valutaria stanno analizzando il materiale sequestrato con le acquisizioni in Aria e in Regione dei giorni scorsi, tra cui tantissime email e comunicazioni ritrovate nei dispositivi informatici. Comunicazioni relative all’affidamento diretto della fornitura di camici. Quella commessa da mezzo milione di euro di camici e altro materiale per l’emergenza coronavirus venne assegnata da Aria alla Dama Spa due giorni dopo che l’azienda aveva annunciato, con una intervista, proprio al nostro giornale, l’intenzione di riconvertire la produzione d’abbigliamento.

L’ordine di acquisto diretto dei dispositivi di protezione individuale (dpi) è infatti datato 16 aprile. Il 14 aprile, due giorni prima appunto, Dini aveva raccontato al Giorno che l’azienda titolare del marchio Paul&Shark, ferma in quelle settimane di lockdown, aveva deciso di riconvertirsi.

"A Varese ci conosciamo un po’ tutti - aveva tenuto a dire - e molti dei nostri collaboratori in questo momento hanno nonni o genitori in difficoltà. Ci è sembrata la cosa più logica da fare per la nostra comunità".

L’articolo spiegava di come era "bastata solo mezza giornata di lavoro per adeguare i macchinari alle nuove esigenze" e che circa 50 dipendenti erano stati richiamati in azienda per procedere a una duplice produzione: mascherine - di cui ne sono state donate 5 mila allo stesso comune di Varese - e camici. Per i secondi, si legge sul quotidiano del 14 aprile, il tessuto certificato "viene fornito da altre realtà aziendali, grazie all’intercessione di Regione Lombardia che ha messo in contatto le imprese che possono confezionare e quelle che possono produrre".

M.Cons.

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