Baby gang, cresce la violenza: non è mai un colpo di testa

Milano, l’escalation di casi vista dal cappellano del carcere minorile Beccaria

Don Gino Rigoldi

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Milano - Un’escalation di casi. E una tendenza, già emersa prima della pandemia, che sta vivendo un’accelerazione preoccupante. Il fenomeno delle baby gang a Milano si è manifestato in vari modi negli ultimi mesi. Quello più frequente prende le forme di bande di ragazzini legati ai quartieri di residenza (spesso in maniera esplicita col numero di Cap come identificativo), che agiscono soprattutto nei territori di riferimento per poi rivendicarlo sui social. Nel mirino finiscono quasi sempre altri minorenni: sopraffatti dalla forza del «branco», malmenati e costretti a consegnare tutto ciò che hanno nelle tasche o che indossano. E poi ci sono i gruppi che arrivano da fuori città, come accaduto la notte di Capodanno in piazza Duomo (adolescenti torinesi accusati di aver partecipato a raid sessuali), il 14 gennaio in viale Coni Zugna (skater altoatesini indagati per aver aggredito e disarmato un vigile) e il 13 febbraio in piazzale Dateo (due minorenni e un diciottenne residenti in Emilia denunciati per aver rapinato un quattordicenne). «Alla base di tutto – secondo don Gino Rigoldi, storico cappellino del Beccaria – c’è l’esibizione violenta, per affermarsi, per mostrare di esistere vessando il più debole». La proposta: creare «un manifesto dell’educazione».

È cappellano del carcere minorile Beccaria da mezzo secolo, don Gino Rigoldi, 82 anni. Di ragazzi ne ha incontrati a migliaia. Casi difficili, a volte definiti “irrecuperabili”. "Ma il mondo degli adulti deve fare un esame di coscienza. Perché non ha saputo prevedere e intervenire. È il mondo degli adulti a dover recuperare".

Che cosa ha visto, in 50 anni? "Ragazzi che hanno commesso vari tipi di reati. Ma nessuno ne ha mai commessi per un “colpo di testa” improvviso. C’è sempre una storia, dietro, tanti passi che “portano a”. L’adolescenza è un’età difficile: nel ragazzo si insinua il dubbio di non valere abbastanza, di essere inadeguato. Spesso in famiglia vive contrasti. E sente il bisogno di apparire importante davanti ai coetanei. Gli stranieri hanno una difficoltà in più perché vivono anche un contrasto tra la cultura di origine e quella in cui sono immersi. Di solito, poi, vivono in condizione di povertà, con pochi strumenti che li aiutino a trovare un equilibrio".

Chi sono i ragazzi reclusi? "Soprattutto ragazzi nati all’estero oppure di seconda generazione. In totale, nell’istituto penale, i giovani sono poco più di 30. Trovo molti punti di contatto tra questi ragazzi e quelli che arrivavano 50 anni fa: italiani, figli di immigrati del Sud Italia. In un mondo “nuovo”, tra i palazzi popolari, ai margini della città, alcuni sentivano il bisogno di affermarsi compiendo gesti di criminalità. Ricordo che un anno, negli anni Novanta, dal Beccaria son passati 1.600 ragazzi, il 95% del Sud".

Per quali reati, soprattutto, oggi i ragazzi vanno in carcere? "Furti e rapine".

Come inquadra oggi il fenomeno delle baby gang? "A tutto ciò che ho spiegato si aggiunge l’amplificazione data dai social: alla base c’è l’esibizione violenta, per affermarsi, per mostrare di esistere vessando il più debole. Il ragazzo crea o si unisce alla gang per aumentare quella che crede essere la sua potenza. Mostrare sui social l’atto violento, che sia una rapina o un pestaggio, ne aumenta la visibilità, appagando ancora di più il bisogno adolescenziale di emergere. E questo lo fanno anche i cosiddetti “insospettabili”, attratti dal branco. Virano verso la criminalità perché i cattivi esempi sono più affascinanti di quelli buoni. Ma il mondo degli adulti deve bloccare queste situazioni".

Come aiutare i ragazzi? "Per esempio valorizzando il loro interesse per la musica rap. Noi educatori dobbiamo individuare la chiave per ciascuno, riuscire a insegnare quanto sono belle l’amicizia e l’amore, quanto appaga essere impegnati in un progetto. Incanalare le energie in qualcosa che faccia emergere la personalità in maniera positiva. Noto pure che i ragazzi che iniziano a lavorare cambiano in meglio, diventano più responsabili. Ma solo se il lavoro non è sfruttamento".

Come prevenire? "La parola “educazione” pare scomparsa dal vocabolario. Propongo di creare un “manifesto dell’educazione”: dal mese prossimo partirà un percorso di formazione per genitori, insegnanti, operatori sportivi, con l’aiuto di professori universitari. Gli adulti sono da “addestrare alla relazione” con i giovanissimi".

Ci sono ragazzi “irrecuperabili”? "No. Ieri sono venuti a trovarmi due ex ‘casi perduti’, un ex alcolista e un ex rapinatore. Hanno trovato un lavoro e uno aspetta anche un figlio. La loro gioia mentre mi guardavano fieri era anche la mia".