Milano, alcoltest solo in flagrante: l’ira dei vigili

Il procuratore capo fissa limiti alle verifiche. I ghisa: così si vanifica il nostro lavoro

Alcoltest da parte di un agente di Polizia locale a Milano

Alcoltest da parte di un agente di Polizia locale a Milano

Milano, 2 luglio 2019 - «Così si rischia di vanificare il contrasto alla guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di droga». A lanciare l’allarme è il Sulpm, il sindacato maggioritario tra i tremila agenti della polizia locale di Milano. Nel mirino dei ghisa è finita la circolare che il procuratore capo Francesco Greco ha inviato lo scorso 12 giugno in materia di «accertamenti sullo stato di alterazione da uso di bevande alcoliche o di sostanze stupefacenti/psicotrope»; una direttiva indirizzata a tutti gli organi di polizia giudiziaria competenti nel territorio della Procura, cioè Questura, Comandi provinciali di carabinieri e Guardia di finanza e Comandi delle polizie locali di capoluogo e hinterland. 

Punto 1: «Richiedere le analisi del sangue in relazione all’ipotesi di cui all’articolo 186 Cds (la norma che punisce chi si mette al volante in stato di ebbrezza, ndr) unicamente allorquando l’intervento della polizia locale sul posto sia pressoché contestuale al sinistro e avvenga prima del trasporto del conducente in ospedale per cure mediche». Interpretata in senso letterale, argomenta il segretario milanese del Sulpm Daniele Vincini, «sembrerebbe che, in caso di incidente stradale con esito mortale o con lesioni alle persone, si dovrebbero astenere dal richiedere gli accertamenti alla struttura sanitaria qualora il conducente non sia più presente sulla scena del sinistro perché già trasportato in pronto soccorso». Messa così, «si tradurrebbe in uno svuotamento del nostro lavoro nella stragrande maggioranza dei casi: è raro trovare i conducenti ancora sul posto al momento del nostro arrivo, visto che quasi sempre necessitano di cure mediche». Per di più, sottolineano gli agenti, l’indicazione è in netto contrasto sia con la circolare del Viminale numero 300 del 2005, che ha ampliato «i poteri di accertamento degli organi di polizia stradale», sia con i dettami dell’articolo 186 del Codice della strada, che dà facoltà ai vigili di sottoporre ad alcoltest tutti i conducenti coinvolti in un incidente o in alternativa di richiedere alle strutture sanitarie presso le quali sono stati ricoverati «l’esame dei liquidi biologici e, previo consenso dell’interessato, del sangue».

Passiamo al punto 2, ancor più controverso. «Richiedere le analisi del sangue in relazione all’ipotesi di cui all’articolo 187 Cds (la norma del Codice della strada che punisce chi si mette al volante sotto effetto di droga, ndr) unicamente allorquando la polizia locale abbia potuto attestare lo stato di alterazione del soggetto coinvolto, indipendentemente dall’esito delle predette analisi». Fuori dal legalese: non basta il dato «tecnico» sull’assunzione di droga, considerato che, nel caso delle urine, stupefacenti come la cocaina sono rilevabili fino a 10 giorni dopo il consumo; serve anche la «prova storica», cioè l’accertamento di persona del ghisa dello stato di alterazione del conducente, che si può concretizzare in «eloquio sconnesso, andatura barcollante, pupille dilatate o altro». Una tesi, ricorda la Procura, sostenuta in più sentenze della Cassazione, l’ultima nel 2018. Conclusione: l’opportunità «di procedere a tali analisi» deve essere «attentamente valutata di caso in caso, in quanto, non potendosi configurare alcun reato in difetto di un’attestazione dello stato di alterazione del soggetto, non si ritiene che le spese relative agli accertamenti richiesti dalle forze dell’ordine debbano essere poste a carico della Procura della Repubblica».  

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