Milano, ago in pancia per 56 anni: donna risarcita con 200mila euro

Intervento sbagliato nel 1962. Ora arrivano i soldi

Una sala operatoria (foto di repertorio)

Una sala operatoria (foto di repertorio)

Milano, 24 giugno 2018 - Il dololre non passava. Le fitte si ripresentavano puntuali ogni giorno: bastava un movimento sbagliato, ed ecco quel fastidio che tornava a farsi sentire, lancinante quanto oscuro. Per 38 lunghissimi anni. Poi un banale esame radiografico ha svelato l’arcano: la signora Maria (nome di fantasia) ha un ago in corpo, un frammento di ago chirurgico per essere precisi. Ce l’ha, e continua ad averlo, da più di mezzo secolo. Esattamente dal 1962, quando la donna finì sotto i ferri all’Istituto ospedaliero provinciale di maternità di Milano (Iopm), diventato poi presidio ospedaliero Macedonio Melloni oggi parte integrante dell’Asst Fatebenefratelli Sacco. Un errore dei medici che la operarono. Scoperto solo nel 2000. Tre giorni fa, a quasi 56 anni dai fatti, la vittima ha ottenuto definitivamente giustizia: la Terza sezione civile della Cassazione ha respinto il ricorso della Città metropolitana di Milano (l’ex Provincia, all’epoca responsabile dello Iopm), confermando la sentenza della Corte d’Appello che ha riconosciuto a Maria un risarcimento di 36.810 euro (cifra salita a 200mila euro con la rivalutazione a ritroso). Una storia incredibile. Ve la raccontiamo dall’inizio.

Il 18 ottobre 1962, Maria, ai tempi 22enne, viene sottoposta a un delicato intervento di fistola retto-vaginale, «con ricostruzione del retto, del piano perineale e della vagina», si legge negli atti predisposti dall’avvocato Giovanni Reho, che ha assistito la donna nella battaglia legale. La donna viene dimessa dopo 15 giorni, e da subito inizia a soffrire di «persistenti infezioni, attribuite dai medici dello stesso Istituto ospedaliero a circostanze temporanee e di rapida soluzione». E invece il disturbo è tutt’altro che passeggero: la periodica assunzione di antibiotici e antinfiammatori serve solo a lenire il sintomo, non a scoprirne la causa né ad eliminarlo. La svolta arriva il 19 maggio 2000, quando una radiografia lombosacrale, effettuata in una clinica di Rimini «per problemi di natura osteoarticolare», rileva «la presenza di corpi estranei». È il frammento di ago chirurgico, rimasto lì per quasi 40 anni senza che nessuno se ne accorgesse. O meglio, qualcuno se n’era accorto eccome: nella cartella clinica, ritirata dalla donna nel 2004, c’è scritto infatti che «nelle manovre un frammento d’ago rimase perso nei muscoli del piano perineale; non essendo possibile rintracciarlo, se non a prezzo di un’ulteriore grave lesione dei tessuti necessari alla ricostruzione, si rinuncia alla sua estrazione». Peccato che nessun membro dell’équipe, stando a quanto risulta, abbia mai pensato di avvisare Maria di quella imperdonabile disattenzione.

Una disattenzione che avrebbe potuto causare conseguenze ancora più gravi: «Anche durante i parti (portati a termine dalla donna dopo l’operazione, ndr) – si legge nella consulenza tecnica di parte stilata da un medico legale e da un ginecologo – si è corso il rischio di provocare danni anche al feto, nel caso le punte fossero affiorate in superficie nel canale vaginale». Per tutto il 2005, la signora, nel frattempo diventata 65enne, cerca, attraverso l’avvocato Reho, di risolvere bonariamente la vicenda, inviando tre lettere datate 25 gennaio, 18 aprile e 30 settembre. Niente da fare: il risultato è «un rimpallo di responsabilità tra il Fatebenefratelli, attuale gestore dell’Istituto ospedaliero per la maternità, e la Provincia di Milano, gestore dell’Istituto all’epoca dei fatti». Si va in aula. In primo grado, il 17 novembre 2009, il Tribunale dà ragione a ente pubblico e ospedale, dichiarando prescritto il diritto della signora a far valere le sue ragioni. In Appello, con sentenza emessa il 17 marzo 2015, la situazione viene ribaltata dal collegio presieduto da Baldo Marescotti: il termine di decorrenza della prescrizione viene spostato dal 18 ottobre 1962 al 19 maggio 2000, con conseguente condanna della Provincia di Milano a risarcire alla vittima la somma di 36.810 euro, corrispettivo di una percentuale di invalidità permanente pari al 10%. Verdetto confermato giovedì.

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