Addio a Vassallo, orgoglio meticcio Sconfisse il razzismo a furia di gol

Figlio di un bersagliere italiano e di una eritrea, nel ’62 condusse l’Etiopia alla vittoria della sua unica Coppa d’Africa

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di Giambattista

Anastasio

Luciano Vassallo è venuto a mancare ieri mattina all’età di 87 anni, a Roma. Calciatore ed esule politico, la sua è stata una vita straordinaria, avventurosa, esemplare. Di lui si è scritto come dell’italiano che vinse la Coppa d’Africa, massimo trofeo calcistico del continente. Una sintesi, quasi un epiteto, coerente con le sue gesta. Ma riduttiva: Vassallo aveva sangue italiano nelle vene, è vero. Ma dell’idea di patria ha conosciuto i figli deviati: l’odio, il razzismo, la discriminazione. Vassallo è stato soprattutto il campione che ha dato dignità a chi di patrie non ne aveva: i meticci d’Eritrea ed Etiopia.

La sua storia inizia il 15 agosto del 1935 ad Asmara: a darlo alla luce è Mebrak Abraham, giovane eritrea di fede cristiano-copta. Fin da subito si capisce che quel bambino non avrebbe avuto vita facile: quando viene al mondo Luciano ha la pelle chiara e i capelli biondi. Per sua madre ha l’aspetto del Demonio, l’aspetto degli invasori, dei nuovi padroni d’Eritrea: suo padre è il bersagliere Vittorio Vassallo, uno dei 165mila soldati delle truppe coloniali italiane inviati da Benito Mussolini nel Corno d’Africa. Luciano non lo conoscerà mai. Mamma Mebrak dovrà crescerlo da sola. Sarà proprio lei, però, ad imporsi perché quel padre svanito nei meandri della storia lasciasse a suo figlio almeno un cognome. Sempre vissuta in povertà, in Mebrak c’era la speranza che per Luciano sarebbe potuto essere tutto più semplice con un cognome italiano in un Paese occupato dagli italiani. Sarà vero il contrario, invece.

Quel cognome lo accompagnerà come una maledizione. Luciano si trova nella condizione peggiore di tutte: in quanto meticcio viene discriminato sia dagli eritrei sia dagli etiopi sia dagli italiani. Oltre alla povertà, sconta il doppio razzismo. Per il regime fascista i meticci sono un attentato alla purezza della razza. Non ha ancora compiuto 5 anni quando Mussolini emana la legge contro il meticciato: ai soldati italiani viene vietato di riconoscere i figli avuti nelle colonie da donne indigene. Una legge che condannava i meticci ad una vita ai margini. L’occupazione italiana dell’Etiopia finirà nel 1941 ma l’essere meticcio continuerà per decenni ad essere un’onta. "Non capivo se fosse bello o brutto quello che mi accadeva – mi ha confidato nel 2016, durante un’intervista –. Capivo solo che per me era difficile con quel cognome". Cacciato da scuola per essersi ribellato alle vessazioni di un compagno di classe che lo aveva preso di mira proprio perché meticcio, Luciano prova a lavorare alle dipendenze degli italiani: in una panetteria prima, in una falegnameria poi. Ma la mole di lavoro è enorme, la paga inesistente e le umiliazioni sono quotidiane. Si ribella, molla tutto, inizia a vivere alla giornata: la sua patria, ora, sono le polverose strade di Asmara, quelle riservate agli indigeni. La Asmara dei bianchi è tutt’altra città, una città a lui vietata. "Ma tra i ragazzi di strada – racconterà Luciano – il colore della mia pelle era motivo di attrazione. Tutti volevano essere miei amici".

Per fortuna gli italiani, come poi gli inglesi, esportano il calcio. Luciano non fa che giocare a pallone nelle piazze, per la disperazione di sua madre. Grazie ad un amico riesce ad assistere dal vivo ad una partita di campionato: quello fu il giorno in cui comprese cosa avrebbe voluto fare nella vita. Così si presenta ai provini ma viene scartato: "Il problema – gli confesserà il dirigente di una squadra giovanile – non è come giochi a pallone". No, il problema è che Luciano, meticcio e ragazzo di strada, viene visto come un pericolo per lo spogliatoio. La prima squadra a dargli fiducia sarà la Stella Asmarina. E sarà un big-bang: centrocampista dotato di un gran tiro da fuori e di senso del goal, nel 1956 Vassallo viene convocato per la prima volta nella nazionale etiope. Quella stessa nazionale che nel 1962 condurrà ad un trionfo clamoroso, inaspettato e mai più ripetutosi: la vittoria della Coppa d’Africa. Luciano solleva al cielo il trofeo con la fascia di capitano al braccio. Solo anni dopo si sarebbe scoperto che l’allora padre-padrone del calcio etiope, il capo della Federazione, poco prima della semifinale di quella Coppa d’Africa aveva imposto all’allenatore di togliere a Vassallo la fascia da capitano. Nessuno pensava che l’Etiopia sarebbe potuta arrivare in fondo alla competizione ed ora non stava bene che l’eroe di quell’epopea fosse un meticcio dal cognome italiano. Lo stesso capo della Federazione aveva più volte fatto pressione su Luciano perché si decidesse ad africanizzare il suo cognome. Invano. Per Vassallo c’era un orgoglio da affermare e difendere, quello dei meticci. Saranno i suoi compagni di squadra ad imporsi perché la fascia da capitano gli resti legata al braccio: lo sport a volte è merito, è amicizia. Non politica.

Nel 1968 una giuria di giornalisti stranieri attribuisce a Luciano il titolo di Stella d’Africa. Sembra il lieto fine, la realizzazione definitiva di un riscatto. Invece nel 1974 l’Imperatore etiope viene deposto con un colpo di Stato: al potere ora ci sono i “Derg“, un comitato di militari vicini al socialismo con i quali inizieranno gli anni del terrore rosso. Luciano ha smesso con il pallone, è il titolare di una officina meccanica, l’altra sua passione sono sempre stati i motori. Ma il nuovo regime conta su di lui, eroe nazionale, per accreditarsi tra le masse. Lui, però, non si presta a fare da uomo copertina. E non solo: nel 1976 denuncerà l’uso del doping nella nazionale di calcio etiope. Da quel momento diventerà un nemico ed un bersaglio del regime. Luciano viene avvisato: è meglio che lasci il Paese. E così farà. Una fuga avventurosa: attraversa a piedi il deserto dei Dancali portando con sé una valigia nella quale ripone una Bibbia, mille dollari americani e la medaglia del 1962. Una volta giunto a Gibuti una pattuglia di soldati lo arresta perché clandestino. Uno di loro, però, lo riconosce, riconosce in lui l’eroe della Coppa d’Africa del 1962. E allora tutto cambia: i soldati si attivano per farlo approdare in Egitto, qui otterrà protezione ed un biglietto aereo per Roma Fiumicino. In Etiopia intanto scatta la damnatio memoriae: il suo nome viene rimosso dai documenti ufficiali della federazione. Luciano Vassallo atterra a Roma il 13 maggio del 1978. Qui ha vissuto fino ieri, senza rimpiangere nulla della sua vita da stella del calcio, da Stella d’Africa. O, meglio, quasi nulla: "Mi piacerebbe tornare a ridere come un tempo – mi confidò in quell’intervista del 2016 –. Si rideva. Nonostante tutto, si rideva tanto coi miei compagni di squadra".

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