"Sono musulmano non praticante": Hosni, l’accoltellatore della Centrale

Infanzia difficile e vita da vagabondo. Verifiche su un amico libico

 Ismail Hosni, 20 anni (Newpress)

Ismail Hosni, 20 anni (Newpress)

Milano, 20 maggio 2017 - «Sono musulmano non praticante», dice. E sullo sfondo c’è quell’infanzia difficile, i genitori in carcere, il trasferimento in Tunisia a 7-8 anni, il rientro a Milano nel 2015. «Sono solo e abbandonato, ero arrabbiato e mi spiace per quello che ho fatto». Sono le prime parole di Ismail Hosni, il ventenne italo-tunisino che giovedì sera ha accoltellato due militari dell’Esercito e un agente della Polfer al piano ammezzato della Stazione Centrale, e ora è sorvegliato a vista a San Vittore. Un raid fulmineo, senza un perché. Una reazione sproporzionata forse legata – l’ipotesi sulla quale stanno lavorando gli investigatori dell’Antiterrorismo coordinati dal dirigente Claudio Ciccimarra – all’inizio di un percorso di radicalizzazione in chiave jihadista. Il ragazzo non è nell’elenco dei soggetti tenuti sotto stretta sorveglianza da Digos e Nucleo informativo dei carabinieri come potenzialmente pericolosi, ma ci sono quei video di propaganda dello Stato Islamico postati nell’autunno scorso sul suo profilo Facebook (peraltro insieme ad altri sulla gang di latinos Mara Salvatrucha) che farebbero pensare a un avvicinamento all’estremismo. Lui si è definito «musulmano non praticante» con l’avvocato d’ufficio Giusy Regina, che dal canto suo chiederà al gip (nell’interrogatorio previsto oggi) che venga disposta una perizia psichiatrica su Hosni.

«Non ci è sembrato uno squilibrato, e il magistrato non ha disposto alcuna valutazione sanitaria», ha precisato ieri il questore Marcello Cardona, arrivato in Centrale pochi minuti dopo l’aggressione. L’accusa è tentato omicidio, ma i pm Alessandro Gobbis e Alberto Nobili hanno aperto anche un fascicolo per terrorismo. L’obiettivo: capire se e in che modo il ventenne si sia avvicinato a quel mondo che spesso fa leva su persone fragili ed emarginate. Persone come Tommaso Ben Yousef Hosni Ismail, nato a Milano il 17 agosto 1996 da padre tunisino e madre italiana originaria della foggiana Ischitella. Entrambi avevano già allora problemi con la giustizia: per lui si parla di danneggiamenti, furto, ricettazione e stupro; su di lei grava, tra le altre, la pesantissima accusa di atti sessuali su minori, che l’ha tenuta in carcere tra il 1999 e il 2006.

Proprio in quel periodo, Hosni se ne va in Tunisia col papà. Ricompare in Italia nel 2015: prova a riallacciare un rapporto con la madre, che a quanto pare non ne vuole sapere; e allora va a bussare a casa della zia, in zona San Siro, ma pure lì resta pochi giorni. Inizia così la vita da vagabondo, anche se lui sostiene di aver provato «a trovare un lavoro»: notti passate in strada, al massimo in un’auto o nei furgoni come quello utilizzato come dimora nell’ultima settimana in via Perini. «Quattro mesi fa (a dicembre, ndr) sono stato arrestato perché avevo un po’ di “fumo”», ricorda. Insieme a lui c’è pure un ragazzo libico: sono inseparabili, vanno a firmare insieme in commissariato fino al 6 febbraio, tanto che gli inquirenti stanno effettuando verifiche pure su di lui. Sta di fatto che da quel momento Ismail cambia. Soprattutto esternamente: la barba si allunga, i vestiti alla moda che compaiono nelle foto sui social (compresa una davanti al Castello Sforzesco) lasciano spazio a tute scure col cappuccio calato sul viso. Non aveva telefoni né computer, il profilo lo aggiornava forse in un internet point.

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