Ponte Lambro, da vittima di violenze a omicida: per Maria tutte le attenuanti

Condannata a 6 anni, anziché a 13 come chiesto dall'accusa

scarpe rosse per fermare la violenza sulle donne

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Milano, 17 giugno 2019 - Una lite furibonda, una parola di troppo, un ricordo doloroso che improvvisamente riemerge e ti terrorizza. Il pensiero, irrazionale, e poi l’azione: voltarsi, afferrare un coltello e uccidere con un solo fendente l’uomo della tua vita. Colpa anche, sostengono ora i giudici di Milano, della “sindrome della donna percossa”, uno stato psicologico che accompagna - anche per anni - le donne che hanno subito violenze e angherie

Litigavano in cucina, come succedeva spesso. Ma quella sera, dicembre di due anni fa, dopo averla provocata lui le mollò uno schiaffo e usò le parole sbagliate: «Cosa vuoi che sia per te, sei abituata a cose peggiori». Non doveva dirlo, perché lei aveva davvero alle spalle una lunga storia di violenze subite. Così qualcosa scattò dentro la donna che si girò di slancio, afferrò un coltello sulla tavola e lo colpì una volta sola, però al cuore. Alejandro B. fece pochi passi e crollò sul pavimento. Maria Luisa F. si era già pentita del gesto e lo abbracciava a terra pregando il cielo a voce alta. La polizia, avvertita dalla loro figlia quindicenne, li trovò così in un bilocale di via Montecassino, zona Ponte Lambro.

Alejandro morì dopo una breve agonia. Arrestata in flagrante, dopo pochi giorni in cella la donna ottenne dal giudice, tramite il suo difensore Silvia Belloni, di andare ai domiciliari nella casa della signora presso la quale lavorava come colf e che accolse lei insieme alla figlia ragazzina. Ora è stata processata con rito abbreviato per omicidio preterintenzionale, oltre l’intenzione. L’accusa chiedeva tredici anni di carcere, il giudice gliene ha inflitti solo sei e nelle motivazioni della sentenza - citando la consulenza tecnica firmata per la difesa dalla criminologa Isabella Merzagora - parla di “sindrome della donna percossa”, un particolare «disturbo da stress post-traumatico» che può insorgere anche a distanza di decenni.

Maria Luisa aveva vissuto tanti anni prima episodi drammatici. Una violenza sessuale subita da uno zio quando era bambina, un’altra dall’uomo che avrebbe poi finito per sposare perché incinta e con il quale avrebbe messo al mondo altri due figli prima che lui se ne andasse lasciandoli soli. Una sindrome, quella della “donna percossa”, che Merzagora spiega manifestarsi anche attraverso “flashback” mentali in grado di far rivivere, a chi ne soffre, «involontari e intrusivi ricordi spiacevoli dell’evento traumatico». Secondo il gup Cristina Mannocci furono le parole pronunciate da lui durante la lite («cosa vuoi che sia per te, sei abituata a cose peggiori»), «per il riferimento ai traumi passati a esasperare l’imputata che ha impugnato il coltello che era sulla tavola apparecchiata per la cena intimando all’uomo di smetterla e, di fronte alle risa di scherno del compagno lo ha colpito al torace senza rendersi conto del gesto che stava compiendo».

La “sindrome della donna percossa” in alcuni paesi anglofoni «è stata addirittura valutata nei processi per omicidio del coniuge abusante alla stregua di una attenuante - scrive il gup - o come legittima difesa o come vizio parziale o totale di mente». Non così nel nostro sitema giuridico, «in quanto manca a tutta evidenza il requisito della proporzione tra la offesa ricevuta dalla imputata (pur tenendo conto della sua situazione psicologica) e il gesto commesso. Per il giudice comunque «tutti gli elementi e le circostanze che sono state sopra indicate non possono però certamente essere ignorate ed inducono al riconoscimento delle attenuanti generiche nella loro massima estensione».

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