A proposito del dono della vita

Migration

Maria Rita

Parsi

La vita è un dono quando le irrinunciabili possibilità che dovrebbero accompagnare il suo percorso possono essere garantite a chi viene messo al mondo. Poiché chi viene al mondo non ha potuto fare la scelta di nascere. E’ lì, nel grembo Paradiso Terrestre, che prendiamo le forme della vita. Maschi o femmine che siamo, senza avere la consapevolezza di quel che poi sarà di noi. E, questo, costituisce la radice di ogni primaria inconsapevolezza. E, ancora, questo costituisce , già di per sé, una “colpa” quando, alla fine, ne usciamo. Provocatoriamente, l’iniziale sola colpa è, pertanto, nascere. Nascere da una donna, la madre, per il seme di un padre, in una famiglia, in un luogo, in una condizione sociale, economica, culturale che rappresentano, per ogni nascituro, un’autentica sorpresa. Una sorpresa che può essere ottimale, buona, pessima a seconda dell’amore di chi accoglie il primo disperato vagito respiratorio di un essere umano che viene partorito. Non a caso, dopo la “simbiosi” ovvero due in uno con la madre, si viene al mondo e, nella fase della “Diade”, inizia quel rapporto di “totale dipendenza” dall’amore e dalle cure anzitutto della madre, del padre e dei famigliari, grazie alle quali si ha la possibilità di sopravvivere. Ma, in mancanza delle quali, si muore. “Dipendere”, dunque, è il codice di iniziale sopravvivenza per ogni essere umano. Funzioni che, per tutta la vita, peraltro, ci accompagneranno. E gestire le quali, in modo emancipatorio, costituisce, con lo studio,il lavoro, la salute psicofisica e mentale, l’arte di esserci e quella di crescere. Arti accompagnate e sviluppate, individualmente e collettivamente, così come il grande neuropsichiatra infantile Giovanni Bollea sintetizza - dalle regole della Triade, che consente e favorisce la legge del vivere e l’esercizio del pensare e dell’esprimersi creativamente, come individui e come collettività. Funzioni, dunque, necessarie per trasformare l’eterna dipendenza dovuta all’umana fragilità della vita segnata, per gli esseri umani, dalla consapevolezza di essere “mortali” e non “immortali”, in una consapevole libertà dalle infinite dipendenze del vivere. Libertà che soltanto la possibilità di esprimere in ogni forma- artistica, umanistica, scientifica e, oggi, virtuale- la propria esperienza dell’esserci, consente di avere. Che dire, allora, a chi inibisce, attenta, nega, tradisce queste libertà? Che dire, agli individui e ai popoli che accettano di negarle, per vivere eternamente nella dipendenza dalla paura e nel non coraggio di vivere e di esprimere, in piena libertà, le proprie esperienze e le proprie di opinioni? Dire che sono prigionieri? Dire che la dittatura che accettano, a motivo della loro prigionia interiore, sociale, culturale, economica, è la negazione stessa proprio della vita che essi non sanno affrontare con autentico coraggio e che, suicidariamente, delegano a persone e a convinzioni che si nutrono dell’ignoranza , professano la vendetta, alimentano la criminalità, l’illegalità, la volgare stupidità e che affidano all’infamia del Potere Distruttivo le sorti dei “dannati della terra” ? E, infine, che dire all’attentore di Salman Rushdie? Forse che è parte integrante di quei dannati della terra che proprio la terra aiutano a rendere un autentico, satanico Inferno.

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro