Milano, 9 aprile 2014 - Paga la psicologa del carcere, per il suicidio in cella di un giovane detenuto a San Vittore. Otto mesi di condanna per omicidio colposo: è la prima volta che un tribunale italiano riconosce una responsabilità di questo tipo. Assolta, sia pure con la formula della vecchia insufficienza di prove, la psichiatra che visitò il ragazzo alcuni giorni prima che si impiccasse. Ma c’è un altro colpevole che emerge chiaramente dalla sentenza letta ieri pomeriggio in aula dal giudice Fabio Roia, nona sezione penale: il ministero della Giustizia, che dovrà rispondere in sede civile del dolore provocato dalla morte di quel ragazzo a chi gli voleva bene. E che intanto, insieme alla psicologa, dovrà versare ai familiari un risarcimento provvisorio di circa 500 mila euro.

«Quelle due professioniste non fecero nulla per impedire il suicidio in cella», aveva ripetuto ancora ieri nella sua replica il pm Silvia Perrucci, chiedendo la condanna per entrambe. La psichiatra Maria Marasco e la psicologa Roberta De Simone nell’estate del 2009 erano in servizio nel carcere di piazza Filangieri. Secondo l’accusa non si sarebbero rese conto che Luca Campanale, 28 anni, rinchiuso nella cella 112 per uno scippo, era un soggetto ad alto rischio. E così avrebbero colposamente omesso i controlli dovuti, lasciando il giovane al suo destino di morte.

Per il tribunale, però, la colpa non può essere divisa equamente. In attesa di leggere le motivazioni della sentenza, si può immaginare che l’assoluzione della psichiatra possa dipendere dal fatto che dopo l’unica vista cui era stato sottoposto il 4 agosto, le condizioni di Campanale erano peggiorate nei giorni seguenti (mentre Marasco era in ferie) con il ripetersi di atti autolesionisti di cui, però, venne informata la psicologa De Simone. Il suicidio del ragazzo risale al 12 agosto di cinque anni fa. Luca era stato appena trasferito a San Vittore a fine luglio dal penitenziario di Pavia, e la sua cartella clinica segnalava un «ben evidente quadro psicotico persecutorio» con nove atti di autolesionismo o tentativi di suicidio in quattro mesi.

Avrebbe dovuto dunque essere ricoverato nel reparto psichiatrico del carcere, ma a causa del sovraffollamento venne invece tenuto in una cella normale e considerato “a medio rischio”, quindi non con una sorveglianza a vista. Da mesi il suo avvocato ne aveva chiesto senza successo «l’immediato ricovero presso idonea struttura sanitaria». Luca venne trovato impiccato nel bagno della sua cella, attaccato con le lenzuola alle sbarre della finestrella. «L’ultima volta che lo vidi - raccontò suo padre Michele al nostro giornale - fu poche ore prima che si uccidesse. “Stasera vengo a casa, papà”, poi abbracciò me e mia moglie che non capivamo». Stando alla testimonianza di un agente, quella sera l’ultimo “suggerimento” che il ragazzo ebbe dal poliziotto che doveva sorvegliarlo fu proprio quello: «Impìccati!».