Vimercate, 22 dicembre 2013 - Star a 24 anni. I suoi dischi vendono migliaia di copie, i suoi video impazzano sul web, sui social media totalizza milioni di contatti. Emis Killa, al secolo Emiliano Rudolf Giambelli, è un’icona del rap italiano.

Cominciamo dal nome...
«Il soprannome Emis arriva dall’epoca in cui facevo i graffiti, Emi era il diminutivo di Emiliano che è il mio nome e la “s” era una bella lettera. Killa, dallo slang americano, sta per killer, perché avevo vinto tutti i concorsi di freestyle».

Origini brianzole.
«Sono nato e cresciuto a Vimercate, ci ho passato infanzia e adolescenza, fra le Torri Bianche e la piazza centrale di Vimercate... e poi Villasanta, Arcore, Bernareggio, insomma coi miei amici seguivamo le giostre in motorino».

Famiglia?
«Mia madre arriva da Palermo, ha sempre lavorato come operaia metalmeccanica, si alzava alle 5 del mattino. Mio padre era di Vimercate, faceva il musicista, suonava il pianoforte in band brianzole e faceva pianobar. Ma aveva problemi, era bipolare ed è morto nel 2009. Dopo le scuole medie in paese, ho provato con Itis e alberghiero, ma non sono mai andato oltre il primo anno: gli stessi prof mi consigliarono di lasciare...».

Quando arriva la musica?
«A 14-15 anni andavo ai Centri di aggregazione giovanile: lì ho cominciato a strimpellare la chitarra, il pianoforte me lo aveva già insegnato mio padre... poi cominciai ad andare a ballare con gli amici, volevo fare il dj. Il rap è arrivato solo dopo. Per due anni facevo solo freestyle, mi piaceva stupire la gente facendo le rime al volo, mi sembrava una cosa magica».

E arriva la vittoria a “Tecniche Perfette”, concorso culto di rap e “freestyle battle”...
«Era l’ambizione più alta, ma da lì decisi di metterci una pietra sopra e mi diedi al rap. A 14-15 anni ho scritto le prime canzoni».

La svolta arrivò dopo un incidente in motorino.
«Quando ho “cioccato” scrivevo già canzoni, solo non avevo i soldi per comprarmi un computer e andavo a registrarle da un amico: e quando un’auto mi venne addosso e mi pagarono il risarcimento, lo usai per comprarmi il primo Pc...».

Quando ha capito che sarebbe diventato un musicista?
«Ora. La musica la vedo come un gioco, una partita a flipper fra amici, in cui tieni le palle in gioco: difficile è iniziare e tenerle in equilibrio. E durare è una scommessa».

Sempre sognato la musica?
«Da bambino in realtà volevo fare il meccanico... l’altro giorno ero da Max Pezzali (il cantante, ndr) a comprare un’altra moto per festeggiare il Disco d’oro e mi sono trovato subito a smanettare: avrei voluto fare quello, ma bisognava studiare. Non ho scelto di fare il musicista, l’ho fatto perché mi piaceva... quando ho cominciato non c’erano soldi nel rap, non mi ci sono “infognato” per quello, lo facevo solo perché mi piaceva».

Come sarà fra 10 o 20 anni?
«Non riesco nemmeno a immaginarmi fra sei mesi, spero di essere un musicista... mi rendo conto di essere un privilegiato: alla mattina mi alzo all’ora che voglio, nei locali non pago... sono venuto dal niente e se mi dovessero togliere tutto questo ora non sarei certo indifferente. Non si può credere a chi dice diversamente, vengo dalla merda, ma preferirei non tornarci».

Soldi e riscatto?
«Avevo le mie paranoie adolescenziali: non potevo comprarmi tutti i vestiti che mi piacevano, anche se i miei genitori non mi hanno fatto mai mancare niente. Mio padre si indebitò per comprarmi il motorino, diceva sempre “se potessi ti comprerei la luna”: non era una frase fatta. Anche se mia madre alle volte, quando arrivano le bollette, piangeva».

E adesso?
«Ho provato ad andare a stare a Milano, ma è durato poco e sono tornato a Vimercate, la Brianza non ti lascia andare via: ora sono nella casa dove sono nato e dove stava mio padre prima di separarsi da mia madre».

Il suo corpo è coperto da tatuaggi...
«Hanno tutti un significato, ma la verità soprattutto è che mi piacciono molto, mi sembra che una persona sia troppo semplice quando nasce: mi tatuerei tutto, solo il mio manager mi ha fermato prima che mi tatuassi anche in faccia».

I tatuaggi sulle nocche glieli ha fatti Nicolai Lilin, l’autore di Educazione siberiana.
«Una candela, una Madonna, un teschio...: volle parlare per una giornata assieme a me prima di farmeli, dovrebbero raccontare me e la mia storia, mi piacciono da morire anche se non so esattamente cosa significhino».

Di cosa ha paura Emis Killa?
«Di volare, e del malessere psicologico e di quello fisico, vorrei crepare senza accorgermene».

E chi odia?
«Pochi conoscono l’odio vero, quello che ti spingerebbe a uccidere una persona. Sono molto irascibile e facile all’impulso. Anche nell’ambiente del rap ci sono facce da c... a cui spaccherei la faccia ma non voglio fare nomi perché non voglio fargli pubblicità».

Chi è Emiliano Giambelli?
«Mi piace quando chi mi conosce mi dice che non sono arrogante o stronzo come potrei sembrare a prima vista, quando mi dicono che sono uno “che ci sta dentro”. Sono una persona onesta, di cuore... uno vero».

Il successo l’ha cambiata?
«Non nei rapporti con le persone più care. Certo, non vado più al bar come prima e non sopporto quelli che per ipocrisia vengono a chiedermi qualcosa di quello che faccio anche se prima non gliene fregava niente... anche i parenti».

L’hanno accusata di omofobia?
«Ho amici gay, solo non sono a favorevole a che le coppie omosessuali possano adottare bambini: fare il genitore è già difficile, l’ho visto coi miei occhi... il dubbio è che la società non sia pronta ad accettare questo tipo di “famiglie”: il bambino può crescere con dei complessi. E mi assumo tutte le colpe per alcune vecchie canzoni, avevo 17 anni...».

La felicità per Emis Killa?
«Smettere di cercarla...».

dario.crippa@ilgiorno.net