Milano, 29 novembre 2013 - C’era una volta lo Stato sociale, che garantiva da solo assistenza ai suoi cittadini. Oggi, nonostante la crisi ma complice la spesa pubblica centellinata, dei bisogni delle famiglie hanno iniziato a occuparsi imprese, banche e assicurazioni, sindacati, fondazioni ed enti filantropici. Anche lo Stato, certo, ma attraverso le sue ramificazioni territoriali: Comuni e Regioni. È il sistema che Maurizio Ferrera e Franca Maino (università Statale di Milano e Centro Einaudi) definiscono «secondo welfare». Porta la loro firma il primo rapporto (in collaborazione con fondazione Cariplo) sulle forme di assistenza private in Italia.

Oltre seimila fondazioni, 11mila coop sociali, 670mila impiegati: è questa la dimensione del terzo settore italiano. La spesa privata in welfare nel nostro Paese vale il 2,1% del Pil (dato Ocse), dietro a Francia e Germania (3%), Regno Unito (7,1%) e Olanda (8,3%). Secondo gli studiosi, ci sono margini di espansione. Anche perché gli italiani chiedono aiuto. Basti pensare che 400mila over 65, tra cui molti lombardi, vivono all’estero in Paesi dove la sanità costa meno e otto famiglie su 10 nell’ultimo anno hanno rinunciato a colf e badanti (dati Società italiana di gerontologia e geriatria). Il «secondo welfare» colma aree scoperte dal pubblico: conciliare famiglia e lavoro; sostenere i non autosufficienti; rimediare a esclusione sociale e disagio abitativo.

In Lombardia, dove ha sede il 15,3% delle istituzioni non profit italiane, funzionano 13 reti territoriali di conciliazione, nate nel 2010 e rinnovate nel 2012 con un fondo di 10 milioni di euro, per aiutare le donne a bilanciare carriera e famiglia e per garantire un impiego alle neo-mamme. Sul fronte imprese, il rapporto segnala i casi di Atm (nido aziendale e campagne sanitarie) e dei Cral di Sea, la società che gestisce gli aeroporti di Milano.

Gianluigi Petteni, segretario generale di Cisl Lombardia, evidenzia l’aumento dei contratti di welfare nella regione, «300 sui 1.500 sottoscritti negli ultimi tre anni». Dal rapporto però un’allerta: attenzione all’assenza di investimento sociale, programmi a lungo termine che rispondano ai bisogni dei bambini e della generazione Neet, i giovani che non studiano né lavorano.

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