di Anna Giorgi e Agnese Pini
Milano, 28 ottobre 2013 - Quando li hanno visti arrivare alle 5 di ieri pomeriggio — dieci poliziotti a passo svelto — nessuno si è scomposto più di tanto. E i bambini a giocare due passi più in là hanno smesso di tirarsi il pallone solo un istante per sporgersi oltre il vialetto curiosi, tra il civico 6 e il civico 8 di via Lopez dove, in un’aiuola a prato, c’è una grotticella di gesso con dentro una Madonna e i lumini rossi sempre accesi. «Vanno dalla Rosa», dicevano i vicini dei piani rialzati, le facce mezze fuori dalle finestre. Poche ore prima, alla zarina della droga, «nonna eroina» hanno ammazzato il figlio, Emanuele.
La signora Tatone? La conoscete? E a quel punto le facce diventano di piombo: «Solo di vista, solo di nome, ma proprio a stento». Eppure vive lì da quarant’anni, dal 1972, lei ex «nonna eroina», come la chiamavano tutti, oggi 83enne: solita palazzina, solito appartamento, il balconcino a un palmo dall’asfalto nel dedalo di cortili e sottoscala e blocchi di palazzoni altissimi. Il cuore di Quarto Oggiaro. Via Lopez, via Pascarella, via Concilio Vaticano II. In altri tempi, ma non troppi lontani, il regno della famiglia Tatone, curriculum da pluripregiudicati fra tentati omicidi, spaccio, rapine e racket degli alloggi: moltissimi, ancora oggi, gli abusivi. Così, all’inizio, quando gli agenti hanno fatto il loro ingresso compatto nel cortile, hanno pensato «ai soliti guai», in un quartiere che certo ha dimestichezza con le forze dell’ordine. Senza ancora sapere che poche ore prima e a poche centinaia di metri da lì — intorno alle 13 negli orti di Vialba — Emanuele Tatone detto «il pazzo», terzo dei cinque figli di Rosa Famiano in Tatone da Casaluce (Caserta), era stato ucciso a colpi di pistola insieme a un altro uomo, Paolo Simone. E quindi i poliziotti erano lì per mamma Rosa, perché al civico 8 di via Lopez, Emanuele era tornato a vivere da pochi mesi, sorvegliato speciale dopo l’ennesima condanna.
È FINITO morto ammazzato, «Emanuele il pazzo», il boss decaduto anzi «pentito», come si definiva lui stesso: «Non ho più niente, voglio redimermi», diceva negli ultimi tempi. E si faceva vedere «premuroso» coi vicini di scala — parole testuali — e «amorevole» con la sua bambina avuta tre anni fa dalla compagna che oggi è in una casa di recupero per disintossicarsi dalla droga. C’era dentro anche lui, fino al collo, nella droga: non si sa se ancora per spaccio — uno dei moventi considerati più interessanti fra quelli al vaglio della squadra mobile di Alessandro Giuliano — ma senz’altro Emanuele ne portava le tracce nel fisico debilitato. Dei Tatone, che pure hanno spadroneggiato per trent’anni, tra gli ’80 e i primi dieci del 2000, nessuno parla. E quando provi a chiedere, a incalzare, tutti glissano. «Se lo conosciamo? Di nome. Però scriva che qui non si vedeva mai».
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