Milano, 17 luglio 2013 - Sessanta milionI di dollari incassati in meno di due mesi di concerti rendono il Delta Machine Tour dei Depeche Mode l’evento da stadio dell’estate, già sold out.
A cominciare dal Wrecking Ball 2013 di Springsteen, che raggiunge a fatica un quarto di quella cifra. E domani la “black celebration” del trio di Basilldon plana tra gli spalti del “Meazza” per la prima tappa italiana di un cammino atteso pure all’Olimpico di Roma (sabato) e poi in inverno, a grande richiesta, a Torino, ancora Milano (il 20 febbraio al Forum), e Bologna. Martin Gore, Andy Fletcher, Dave Gahan (a cui in scena si aggiungono Peter Gordeno, tastiere, e Christian Eigner, batteria) scivolano tra assaggi del nuovo album “Delta machine” come “Welcome to my world” ed “Heaven”. Insomma un synt-pop dal fascino oscuro buono per tutti i palati, come conferma lo stesso Martin Gore.

La scaletta cambia ogni sera, come scegliete il repertorio dello show?
«Ogni nuovo album complica la selezione delle canzoni da portare poi in tournée. Così cerchiamo di puntare su quelle più funzionali all’idea di spettacolo che abbiamo in mente senza lasciarci prendere troppo la mano dalle nuove».
Gran parte dei fan s’è detta entusiasta di questo vostro ritorno ai suoni del Delta.
«Siamo una electronic band che però utilizza molto, soprattutto in fase di composizione, strumenti tradizionali. Il blues delle origini l’abbiamo frequentato in numerosi album è quindi più che altro il titolo del disco ad evocare un ritorno al genere di blues».

“Delta machine” è prodotto come al solito da Ben Hiller.
«Amiamo Hiller perché è bravissimo a mettere assieme le persone e a creare un’ottima atmosfera. Anche se, alla notizia che avevamo scelto lui, alcuni nostri fan nel loro forum hanno scritto: oh no, un altro disco con Ben...».

Il coordinamento artistico dello show ve lo cura invece il fotografo olandese Anton Corbjin.
«Gli dobbiamo molto perché è stato lui a darci un look. E questo ha aumentato la credibilità di ciò che facevamo. Anche prima d’incontrarlo vestivamo di nero, ad esempio, ma il suo tocco ci ha dato uno stile che per i fan è diventato quasi una filosofia. Forse non in Italia, ma in Germania certamente sì. Ecco perché chiamiamo i nostri seguaci di lassù “cigni neri”: perché vestono tutti di scuro».

Un sodalizio longevo il vostro. Vi siete mai chiesti perché?
«Le ragioni sono più di una e tutte in un modo o nell’altro decisive. Innanzitutto abbiamo avuto la fortuna di debuttare in un’epoca in cui le cose nascevano e si sviluppavano in maniera più graduale di quanto accade oggi; questo ci ha permesso di tenere sotto controllo le dinamiche disgreganti. Poi oggi abbiamo imparato lavorare con metodo e in maniera molto più organica di vent’anni fa. I brani di questo disco, ad esempio, si sono presi tutto il tempo necessario per potersi sviluppare al meglio, senza fretta né forzature».

E lei com’è cambiato?
«Da quando ho smesso di bere e di condurre una vita edonistica per me è iniziato un processo di autoanalisi di cui comincio a vedere i risultati».