Milano, 5 agosto 2012 - Altro che Caravaggio, nel senso dei poco meno di cento disegni attribuiti a un imberbe Merisi da Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli in un ebook contestato dalla quasi plenaria dei critici d’arte. Tra le circa 28 mila opere del Gabinetto dei disegni del Castello Sforzesco - che dopo la presunta visita notturna di cui si sono autodenunciati i due studiosi ha cambiato le serrature e introdotto un registro d’ingresso al quale non sfuggono nemmeno i dipendenti del Comune - ci sono tesori che non han bisogno di scopritori. Ad esempio 62 Boccioni, la più importante collezione al mondo di opere grafiche dell’artista.

Tecniche e finiture variano, dai disegni a matita a veri studi pittorici ad acquarello o a tempera, alcuni firmati come una figura femminile del 1912, quasi cubista, che la conservatrice Francesca Rossi maneggia in guanti bianchi. Sono delicatissime, queste creature grafiche spesso realizzate su carte povere che il Ministero ha vincolato come opere a mobilità limitata. Non vuol dire che non lascino il Castello, anzi: a gruppi, sono state esposte in 45 mostre dal 1962. Alcune erano a Palazzo Reale con i Futuristi nel 2009, altre c’erano nel 2006, alla mostra sulla scultura di Boccioni, altre ancora le ha chieste il Guggenheim di New York per un’esposizione nel 2014. E anche se nessuno ha annunciato all’Ansa la loro «scoperta» sono note agli addetti ai lavori, e tuttora studiate. Ma non sono state mai esposte tutte insieme. L’occasione potrebbe arrivare col centenario della morte dell’artista, nel 2016: il Comune, che al Museo del ’900 possiede anche la più importante collezione al mondo di opere pittoriche di Boccioni, sta lavorando a un grande evento.

È suggestiva la storia dei 62 Boccioni, ricostruita nel ’91 da Mercedes Garberi, che per quasi trent’anni ha diretto le Civiche raccolte d’arte a Milano. Alimentate, come tutti i grandi patrimoni pubblici italiani, più da lasciti che da acquisizioni. Finché all’inizio del secolo scorso irrompe l’arte contemporanea, e il Comune, caso raro, comincia a comprare, soprattutto i futuristi che hanno in Milano il loro baricentro. Arriva così il primo disegno di Boccioni: «La madre di Ines», acquistato insieme a un dipinto da Cecilia, la madre, subito dopo la morte dell’artista, nel 1917. Nel ’32 ne vengono comprati altri 9 da Gustavo Botta, tra i quali un autoritratto del 1909, e altri ancora, tra lasciti e acquisti, si aggiungono l’anno successivo, sull’onda della grande mostra che Giorgio Nicodemi, soprintendente capo dei Musei civici, dedica all’inventore del dinamismo plastico.

In questo clima matura l’operazione, tessuta da Nicodemi con l’aiuto di Marinetti, che porterà al Gabinetto la gran parte del nucleo Boccioni: 48 disegni, donati insieme ad altre opere dell’artista e di altri futuristi alla città di Milano da un ragioniere torinese, Ausonio Canavese. Questi li aveva da poco acquistati per quarantamila lire dai parenti del fu Fedele Azari, avvocato, aviatore e collezionista, che li aveva comprati nel ’27 da Amalia, la sorella di Boccioni. La famiglia Azari, che navigava in cattive finanze, li aveva già offerti nel ’32, per trentamila lire, proprio al Comune, che aveva declinato. Errore di lungimiranza rimediato dallo straordinario legato Canavese. Nicodemi si adopera per ringraziare lo schivo ragioniere facendogli ottenere la commenda della Corona d’Italia. Ma il Ministero gliela negherà in quanto celibe, limitandosi a farlo, nel ’37, cavaliere.

di Giulia Bonezzi

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