Milano, 20 novembre 2011 - Enzo Jannacci, «per capirlo bene», ci sarebbe un elenco di undici requisiti da scoraggiare chi suoni men che come Louis Armstrong e/o sia digiuno di medicina e chirurgia. Comincia così la biografia pubblicata da Mondadori, con la promessa di essere «l’unica che racconti qualcosa di vero». L’ha scritta il figlio Paolo, musicista e direttore d’orchestra; tipo vulcanico, si realizza nei primi minuti dell’intervista in una pausa delle prove dell’orchestra di Zelig (di cui è direttore musicale), in parte in macchina «Aspettando al semaforo» come il titolo.

Trentanove anni, musicista dall’età di 15, è compositore, arrangiatore, insegnante al Cpm, ha fatto il linguistico e studiato Filosofia, prima di farsene distogliere dal giro («all’epoca assai lucrativo») dei jingle pubblicitari. Ora lavora a uno speciale con Fabio Fazio, che andrà in onda il 12 dicembre; su Jannacci, che ha raccontato attraverso gli occhi (del figlio) e gli amici (del padre), da Beppe Viola a Enzo Montanari, maestro di karate e «ricercatore di pace». Per raccontarlo bene, però, Enzo ha dovuto registrarlo; il distillato sono una dozzina di dialoghi, surreali con scartamenti anche un filo macabri, dritti al cuore del Jannacci-pensiero, nel senso del padre ma un pochino anche del figlio.

 

Come si scrive la biografia di suo padre?
«Prima ho scritto quel che avevo in mente, cercando di riprendere uno po’ lo stile suo e di Beppe Viola, un po’ i libri che mi piacciono».

Cioè?
«Salinger è il mio preferito».

Poveretto...
«Come si permette?»

Ha scritto poco.
«Basterebbe il Giovane Holden. Comunque ho cercato di usare la sintassi in modo civile. Enzo ha letto due o tre cose, ha detto: “Sai che stai facendo una cosa bella?”. Allora sono andato avanti».

Poi ci sono le vostre conversazioni.
«Sviluppano certi temi, come la guerra, il teatro, gli amici, Milano, il Milan... È la parte viva di Jannacci, che lo rende intelligibile al lettore, lo fa entrare direttamente nel suo pensiero».

L’ha registrato?
«Sì, alla fine avrò raccolto dieci ore... Poi l’ho editato, tagliando e depurando, come fosse un audiolibro o una pièce teatrale. Poi l’ho sbobinato, tagliato ancora, corretto, e mi sembrava orrendo, così l’ho ripassato altre tre volte... La casa editrice diceva che andava bene, ma insomma stavo facendo un libro, mica il prosciutto».

Tra voi parlate sempre così?
«Fin dall’inizio abbiamo cominciato quasi a recitare, cioè eravamo un po’ sopra le righe... Un po’ siamo così anche nel casalingo, è una deformazione professionale. Negli spettacoli gli ho fatto spesso da spalla, una spalla abbastanza silente».

Qui no invece.
«Non sono mai stato così “alla pari”, in qualche modo l’ho guidato. Lui è il genio, io faccio il regista».

E il semaforo?
«È un’immagine molto nostra, nel senso che ce l’abbiamo sotto casa, all’incrocio con viale Romagna. Un quartiere sui generis, poi per noi milanesi il semaforo è un’icona. L’idea ci è venuta mentre eravamo bloccati in un taxi».

Aspettando un rosso.
«Succede no? Ti fermi, ti accade di pensare, pianificare, avere anche idee vincenti».

C’è anche chi si attacca al clacson.
«Io non lo uso mai, a meno che uno non mi si metta davanti di traverso... Non sopporto quelli che non rispettano gli altri».

Che parcheggiano in seconda fila?
«O in terza... Mettiamola così: l’eroe gira per due ore e salta il pranzo, il semicivile trova un posto che non danneggi nessuno. Io sono il semicivile».

Dov’è il «qualcosa di vero»?
«So di dire cose vere di Enzo. Dalla sua voce conosciamo il reale di Enzo. Questa è la risposta logica».

L’altra?
«Io conosco il vero Jannacci, ho i diritti, nel senso che sono il detentore della verità su di lui».

Lo chiama sempre Enzo?
«Quando lo racconto. Nel privato lo chiamo papà».

E dice che è un papà normalissimo.
«Lo confermo, poi ci son stati momenti più o meno difficili, che non sto a raccontare. Ci sono cose che ho voluto tenere private, fanno parte dell’intimità».

A un certo punto spunta Claudio Bisio, nei panni del sostituto-rivale dell’uomo del semaforo, che è poi Enzo.
«È un amico, mi ha aiutato molto e volevo ringraziarlo pubblicamente. Due battute, le abbiamo registrate in camerino, durante una prova di Zelig. Non ho dovuto tagliare niente».

Lei ha lavorato con suo padre fin da ragazzino. A un certo punto ricorda un suo brano che fa: “Lettera a mio figlio che mi ha guardato cantare come fossi io il figlio”.
«È capitato, ma in generale, quando abbiamo capito che potevamo lavorare insieme, è stato subito chiaro che lui era quello che si divertiva, io l’incasellatore. Ho una mentalità organizzatrice, lui no: va direttamente al succo».

A ventidue anni gli ha fatto da arrangiatore per “I soliti accordi”.
«Erano gli anni Novanta, i dischi avevano piani di produzione costosissimi, in tempo e soldi, e io ero alle prime armi. Ho coinvolto Giorgio Cocilovo, che si è preso la responsabilità del budget, perché io ero un po’ considerato il figlio del capo, quello della casa discografica finché non ha ascoltato il mastering diceva che faceva tutto schifo... Insomma è stata un’esperienza importante, difficile. Mi ha fatto crescere».

Andaste anche a Sanremo, con Paolo Rossi e lei con la fisarmonica. Che suo padre le chiese d’imparare da un giorno all’altro... Come ha fatto?
«Un brano solo, ci riesce anche lei».

Cos’ha preso da suo padre?
«Senz’altro l’ironia. L’importanza del rispetto, della civiltà. Una visione disincantata del mondo, che vuol dire saper vedere dietro la facciata. Un approccio artistico che fa apprezzare le cose semplici, una sensibilità più alta: se suoni con qualcuno lo devi capire, altrimenti è un disastro. E poi conoscere i teatri dall’uscita di servizio».

Prego?
«Di recente ho visto Ale e Franz dalla platea e mi son detto: “Allora è così che si sta a teatro”».

Il pubblico ha sempre ragione, dice, ma qualche volta no. Ne elenca due: Festivalbar a Verona, nel ’91, e il concerto del Primo maggio a Roma nel 2007.
«Non esiste un pubblico cattivo, semmai è cattivo l’artista. Ma in quelle occasioni ho incontrato una cattiva attenzione, il rifiuto di ascoltare, come se si volessero solo stordire, come se avessero paura del silenzio, perché oggi ovunque vai c’è la musichina di sottofondo, predomina quel che in fisica si dice il “rumore rosa”... È dagli anni ’80 che cercano di cambiarci la testa, per diverse ragioni, giuste e sbagliate ma soprattutto sbagliate, visto che il risultato è un inviluppo culturale».

Lei ha una figlia di tre anni, Allegra. Che nonno è Jannacci?
«Eccezionale, perché è puro. Perciò sa parlare coi bambini, anche quando sono, come la mia, ancora puro istinto».

Fa anche il medico in famiglia?
«Sospetto che di pediatria non capisca granché. Con me, però, ci ha sempre preso».

E lei ci ha preso a fare il musicista?
«Negli anni ’80, quando dicevi che eri musicista, ti davano di gomito: “E le ballerine?”. Negli anni ’90 dicevano un po’ interdetti: “Ah, fai musica?”. Nel Duemila dicevano: “Che meraviglia, sei un artista”. Era bello, nel Duemila».

Adesso?
«Adesso sono indecisi tra trattarti come un dio o come un idiota, perché ci son tanti venditori di fumo, in giro, che si spacciano per artisti. A me basterebbe che mi considerassero un menestrello».