Milano, 13 agosto 2011 - Tenta il sorpasso. Una manovra azzardata. Ci riprova. Niente da fare. Scoppia così un litigio furibondo quanto inutile, che si conclude in tragedia: un uomo in fin di vita all’ospedale Niguarda e l’altro in cella a San Vittore con l’accusa di tentato omicidio volontario.

Ore 13.20 di ieri, via Marco Bruto, periferia est di Milano, a due passi dalla zona dell’Ortomercato e dall’aeroporto di Linate: la Renault Modus guidata da un italiano di trentasei anni, professione camionista, cerca di superare l’Audi A6 che gli sta davanti, al volante un libanese di trentaquattro. Colpi di clacson, imprecazioni. Non c’è un gran traffico, siamo in pieno agosto: le due vetture frenano bruscamente, i conducenti scendono e iniziano a insultarsi. C’è una netta differenza di fisico tra i due, a favore dell’imponente mediorientale. Così l’italiano decide di evitare il corpo a corpo, risale subito in macchina, ingraia la prima e accelera, con un preciso bersaglio da abbattere: il libanese S.E., rivenditore d’auto, è ancora in strada, viene travolto e trascinato per circa sessanta metri. Resta esanime sul selciato, ha picchiato violentemente la testa, probabilmente contro il marciapiedi o al primo impatto con la vettura killer. La Renault prosegue la sua corsa impazzita, fugge.

I cinque testimoni dell’aggressione, che poi inchioderanno l’italiano confermando la dinamica della vicenda, chiamano immediatamente i vigili urbani: quando arrivano sul posto, gli agenti della municipale si trovano davanti anche l’investitore, tornato sul luogo del delitto forse dopo aver compreso l’estrema gravità del suo gesto. Immediati i soccorsi: la vittima è cosciente, ma in ospedale perde conoscenza per un’emorragia intracranica che rischia di costargli la vita; i medici lo sottopongono poco dopo a un lungo e delicato intervento chirurgico. Ora è in coma, la prognosi resta riservata. L’aggressore viene fermato e interrogato: a chiedergli conto della folle condotta, il comandante dei ghisa, Tullio Mastrangelo, il pubblico ministero di turno Antonio Giuseppe D’Amico, e gli investigatori del reparto Radiomobile; alla fine, viene condotto in carcere, dovrà rispondere di tentato omicidio volontario, aggravato dai futili motivi. Gli inquirenti lo descrivono estremamente confuso, incapace di spiegare quello che ha fatto pochi minuti prima, in grado solo di proferire: «Abbiamo litigato, non mi faceva passare». Il corpo ricoperto di tatuaggi, anche a sfondo religioso, la faccia tra le mani.