Milano, 31 luglio 2011 - Gli anniversari non le piacciono, e non deve essere stato facile trascinarla alla Fenice, due anni fa, a festeggiare i suoi quarant’anni di carriera. Ancor meno le piace quell’abitudine dei settimanali d’indicare tra parentesi l’età della gente. Più che un vezzo, è una filosofia: il retrovisore non è compatibile su Katia Ricciarelli, fuoriserie della lirica accessoriata di talento eclettico, spirito libero e lingua sincera. Anche quando racconta la sua rottura con la Scala, dove non mette più piede da quel 1989 in cui la fischiarono in Luisa Miller, con Pippo Baudo (suo marito per diciott’anni) che quasi veniva alle mani con un loggionista. Il soprano è in buona compagnia: non si contano le stelle inciampate sul palco impervio del Piermarini. Renata Scotto, Montserrat Caballé, persino Big Luciano Pavarotti. Solo che lei, invece di svignarsela dal retro come gli altri, tornò in scena e affrontò il pubblico, maledicendolo. Naturalmente, non se n’è mai pentita.
 

Quarant’anni fa vinceva il concorso voci verdiane della Rai...
«Quaranta, sicura?»
Come «sicura»? Non fu quello a regalarle il successo?
«Sì, la svolta importante fu allora».
La sua famiglia non era ricca, affermarsi le costò grandi sacrifici. Era più difficile allora o adesso?
«Adesso. I tempi sono cambiati, è un momento di confusione e i talenti fanno fatica a uscire fuori. Quando anche per i grandi nomi è difficile trovare lavoro...»
A guardare la sua agenda estiva, zeppa di festival e concerti, non si direbbe.
«Per fortuna non ho problemi, ma per un giovane è durissima. C’è questo sistema usa-e-getta, un ingranaggio che rischia di triturare i più bravi. Meno tempo per tutto, anche per aspettare che un talento cresca... E poi questo modello televisivo imperante, per cui chi è senza meriti pretende di fare grandi cose. Il risultato è il caos».
La lirica vista da fuori sembra un mondo senza tempo. Dice che la tv l’ha contagiata?
«Eccome. Soprattutto con la voglia di arrivare immediatamente. Invece questo è un mestiere che pretende grandi sacrifici, studio e allenamento».
Esattamente vent’anni fa ha fondato l’Accademia lirica internazionale Katia Ricciarelli. Ma allo Stato, ha detto, non chiede più un euro, perché si è stufata della burocrazia.
«È la verità. Se devo chiedere l’elemosina, piuttosto che perder tempo a inseguire una cifra che, le assicuro, per i corsi è irrisoria, preferisco fare da sola e sperare che qualcun altro mi dia una mano».
I privati?
«Per forza. Ma vado avanti lo stesso, e con grandi soddisfazioni. Vedere un giovane che ha successo è una gratificazione immensa. La loro riconoscenza mi allarga il cuore».
Ci sono anche gli spettatori, alcuni teatri come la Scala stanno facendo diversi sforzi per riportare i giovani all’opera.
«Sinceramente non vedo le platee così ringiovanite. Forse è troppo tardi, bisognava pensarci prima».
Chi doveva pensarci?
«Tutti. Le scuole, portando gli studenti a teatro, le famiglie. Gli adulti: siamo noi che abbiamo la responsabilità di prendere per mano i giovani, di fare di più. Vale anche per gli appassionati, che farebbero meglio a smettere di considerarsi gli unici custodi della tradizione operistica, a uscire dai discorsi avvitati sul “mi ricordo questo e quest’altro”. Non si vive di soli ricordi, anche il mondo dell’opera deve essere capace di guardare avanti».
Il pubblico dell’opera spesso è severo, anche con chi sta sul palco...
«Non so se dire severo o abituato a guardarsi il naso. Non voglio essere presuntuosa, ma posso assicurarle che la mia unica vera esperienza negativa l’ho avuta alla Scala. Guardi, non voglio neanche parlarne».
Invece dovrebbe. Perché, a differenza di tanti altri, lei ebbe il coraggio di tornare in scena e mandarli a quel paese.
«Certo, non era giusto. Noi cantanti, vede, sentiamo l’odore del sangue, come i tori nell’arena. Ma quella sera vennero a teatro coi fischietti. Anche se a me, alla fine, hanno fatto un piacere».
Un piacere?
«Sì, perché mi sono scoperta battagliera. Ho trovato in me una forza, una scorza che non immaginavo. Quella sera ho capito di essere fatta per questo lavoro. “Bene, adesso so cosa vuol dire, vado avanti”. Sa cosa diceva sempre mia mamma?».
Cosa diceva?
«“Chi va al mulino s’infarina”. Altri dicono “non diamo importanza al raglio dell’asino”. A teatro si va per divertirsi e per discutere, ma senza ostacolare chi ha educazione o mettere a repentaglio lo spettacolo. Se non si apprezza, si può sempre non applaudire. L’indifferenza è molto peggio degli insulti e dei fischi. Che, le assicuro, non meravigliavano allora, figurarsi adesso che non mi meraviglia più niente. Certo, lasciano il segno. Con l’Orchestra della Scala ho fatto cose splendide, ma quelle brutte si ricordano di più».
Proviamo a ricordarci quelle belle?
«Il viaggio a Reims col maestro Abbado, la Messa da requiem... Ma quello tra me e la Scala era un matrimonio che non funzionava. Tanto valeva divorziare subito».
Infatti non ci tornò più.
«E sono stata benissimo anche senza. Ci sono tanti altri teatri, alcuni bellissimi e dimenticati. La Scala è un teatro straordinario, purtroppo intossicato da veleni e faziosità. E sembra che quando qualcosa succede lì, subito diventi d’élite. Ma la lirica è per il popolo. Questo dovremmo fare, riportarla al popolo».
Quando le arie più famose le cantavano o fischiettavano tutti, per strada...
«Adesso succede solo se le reinterpreta qualche cantante di musica leggera, o peggio la pubblicità».
Però la sua esperienza scaligera le ha lasciato anche ricordi belli. Nella sua biografia, “Altro di me non saprei narrare”, ha parlato del suo amore segreto con Paolo Grassi, che allora era sovrintendente del Piermarini.
«Per me è stato una persona speciale. Ho sempre frequentato persone che potevano insegnarmi qualcosa. Grassi, ma anche Bogianchino (Massimo, musicista e musicologo, già direttore del Teatro dell’Opera, ndr), e naturalmente Abbado. Ho riascoltato il Ballo in maschera registrato con lui e Domingo, straordinario... Ma lui è un direttore unico».
Lei è stata diretta da alcune delle migliori bacchette del Novecento e di questo scorcio di millennio. Ne manca qualcuna?
«Beh, m’è mancato Bernstein. Ma ne ho avuti così tanti: von Karajan, Muti, Zubin Mehta, Carlos Kleiber...».
E, naturalmente, Abbado.
«La discografia con lui è uno dei lavori di cui fado più fiera. Come di tutte le cose fatte insieme e con la Filarmonica, i viaggi in America e in Russia... Vede, il mio è un lavoro che, quando lo ami, oltre a essere una cosa seria diventa un gioco. Siamo un po’ come il circo equestre: c’è l’acuto, brutto o bello, facciamo acrobazie vocali».
Perché non sposò Grassi? Lui aveva anche stampato le partecipazioni...
«All’epoca c’erano altre cose, la mia carriera... Mi piaceva stare con lui, mi beavo di come parlava, di come scriveva. Mi sono sempre beata all’ombra di persone intelligenti e colte, io assobivo tutto come una spugna. Anche adesso faccio una vita riservata, poco mondana, con poche persone, che però sappiano dire e dare qualcosa. Sa cosa mi ha salvata, nella vita?».
Cosa?
«Sono sempre stata curiosa. È per questo che continuo a rimettermi in gioco, che ho sempre fame e sete di cambiare, senza atrofizzarmi in un settore».
Infatti: ha fatto la tv, il cinema d’autore con Pupi Avati ma anche le fiction, persino un reality. Eppure le hanno perdonato tutto.
«In che senso scusi?»
Che è rimasta «un nome».
«Bisogna essere seri: tolti uno o due al mondo, che possono passare i settanta o gli ottant’anni sulla breccia, ma non aspiro a tanto, dopo una certa età è impossibile tornare a certi livelli. Ora ho più tempo, e più coraggio, per riascoltarmi: ritengo di aver fatto cose splendide. E mi domando come potrei rifarle a distanza di quarant’anni. Meglio non fare confronti con noi stessi, è la cosa più stupida per noi che lavoriamo con la voce e dobbiamo fare i conti con i nostri limiti fisici. Se va bene, ci diranno che ce la siamo cavata, una cosa che fa un male... Ed è anche poco intelligente. Per questo consiglio a tutti: cambiate repertorio, studiate, trovatevi altro. Io sono stata fortunata: non ho cercato nulla, è tutto arrivato, come quando Pupi Avati mi ha chiamata per “La seconda notte di nozze”. E io mi sono buttata, con grande umiltà. Pare anche che sia andata bene...».
Ha vinto il Nastro d’argento, veda lei.
«Sono orgogliosa soprattutto di essere riuscita a rimettermi in gioco. È necessario, per restare vivi».
È anche raro nel suo campo, dove spesso le stelle finiscono per vivere nel passato...
«Io ne morirei. Quando mi dicono: “Ti ricordi...?” rispondo sempre che no, non mi ricordo. Non ho mai tenuto un diario, non faccio i conti: la centesima Bohème, la duecentesima... Una fatica immensa per me, che a stento festeggerei i compleanni. Poi, essendo un personaggio pubblico, stanno sempre lì a ripetermi la mia età, la mettono tra parentesi sotto alle foto...».
Le dà fastidio?
«Sì. Ma non fraintenda, vivo bene con la mia età, sono serena, ho trovato una mia filosofia di vita. Molto semplice, vivo alla giornata, prendo quel che viene e ringrazio sempre per quello che ho avuto. Ho avuto talmente tanto che non posso chiedere di più».