Milano, 10 febbraio 2011 - Fulvio Maria Scavia, calmo e cortese, dietro la sua scrivania del Seicento nella saletta della gioielleria vuota di via della Spiga, racconta. Risponde al telefono, che suona ogni cinque minuti. Clienti, amici e fornitori. «Sì, sì è terribile mi hanno portato via tutto, tutto. Ero a New York, sei, sette milioni di roba».

Signor Scavia a distanza di quattro giorni dalla rapina che novità ci sono, speranze di ritrovare i gioielli, era assicurato ?
«Nessuna, non ci spero proprio di ritrovarli, mi sono messo il cuore in pace perché gioielli così preziosi non sono sono facilissimi da rimettere sul mercato. Sono tutti pezzi unici disegnati a mano, piccole opere d’arte. Quindi chi li ha rubati sapeva già a chi darli, cioè aveva un canale diretto con i ricettatori, non li tiene certo in casa in attesa di piazzarli, se ne sbarazza il prima possibile. Saranno già all’estero, chissà dove. E purtroppo li avevo assicurati solo per una parte del loro valore».

Che idea si è fatto di questa banda. Secondo lei c’è una talpa o qualcuno che può avere agevolato l’accesso ai rapinatori?
«No, direi che la polizia tende ad escluderlo. Anche perché non era difficile purtroppo entrare dal portoncino del civico 9, le chiavi sono di un modello molto comune e a quel punto per una banda così specializzata procurarsi quelle chiavi era come bere un caffè. Per il resto mi fido ciecamente dei miei dipendenti, loro sono fidatissimi e da quando è successo il fatto, ho dato a tutti una settimana di ferie per riprendersi».

Che cosa le hanno raccontato i dipendenti?
«Il signor Paolo, direttore del negozio, mi ha detto che gli hanno mostrato una foto, gli sembrava quella di casa sua, ma sa in quei momenti è difficile restare lucidi, aveva una dinamite legata al polpaccio, lo minacciavano dicendogli che lo avrebbero fatto saltare in aria, lui e la sua casa. A quel punto ha fatto tutto quello che gli dicevano. Se li è trovati davanti e gli hanno puntato subito la pistola, non ha avuto il tempo nemmeno di pensare».

È vero che parlavano con uno spiccato accento meridionale?
«I dipendenti mi hanno raccontato che si rivolgevano a loro in italiano senza accenti, ma poi tra loro si scambiavano frasi in siciliano».

Non è la prima volta che le capita di essere vittima di una rapina...
«No, non è la prima volta, un altro colpo simile qualche anno fa. Stessi danni. Ma Milano è così, non riesco a lavorare. È l’unico posto in cui ho subìto due furti importanti nel giro di cinque anni. Eppure per l’Italia e per Milano faccio tanto. Ho otto punti vendita in tutto il mondo e non ho mai voluto delocalizzare la produzione. Ho un’azienda con cinquanta maestri orafi tutti rigorosamente italiani. Questa rapina mi amareggia molto, perché deve far riflettere sull’eccesso di criminalità di una città come Milano.

Cambierà qualcosa nelle sue abitudini?
«Sì metterò due guardie all’ingresso. Entrata e uscita solo se ci sono loro. Sa che il peggio mi è capitato solo qui?».

Il tentato sequestro nel ’77?
«Sì, proprio quello, i giornali dell’epoca titolarono che
i rapinatori mi avevano abbattuto. E io invece sono ancora qui. Mi aspettavano sotto casa, ho reagito e la banda di Vallanzasca mi ha sparato quattro colpi, tre sono andati a segno. Ma hanno pagato tutti».