Mialno, 3 luglio 2010 - «Siamo dispiaciuti per Francesco. Ma, per favore, basta dire che è colpa del parkour. Il problema è come la disciplina viene pubblicizzata su internet». A parlare sono Demetrio Crea e Davide Polli, vicepresidente e responsabile allenamenti dell’Associazione sportiva dilettantistica Parkour Milano, l’unico sodalizio in città iscritto all’Unione italiana sport per tutti, l’unico a organizzare corsi professionali della disciplina che sta facendo breccia tra i giovanissimi.

Ventitre anni, studente al quarto anno di Medicina, il primo. Ventisei anni, un posto nella ditta di import-export del padre, il secondo. Insieme partono dal dramma di di Zola Pedrosa (Bologna): mercoledì Francesco, 12 anni, è caduto dal tetto della scuola, di notte, mentre provava un’acrobazia. Il balzo non gli è riuscito, una grondaia di plexiglass ha ceduto. Lo schianto gli è stato fatale. «Parkour, moda da combattere»: inevitabile fosse questo il tenore dei commenti.

 

L’Asd e il gruppo di Crea e Polli, «Milan Monkeys («Scimmie Milano»), dal 2009 organizzano corsi per ragazzi. «Non prendiamo nessuno sotto i 14 anni perché può essere dannoso per il fisico» dicono. «E non insegniamo a saltare dai tetti». «Pratico il parkour da sei anni — fa sapere Davide —, mi considero un professionista. Ma non ho mai saltato tra i tetti o da altezze superiori ai 3 metri». «Non pratichiamo la disciplina al buio facendoci luce col cellulare — riprende Demetrio in riferimento al dramma di Zola —. E prima di provare controlliamo la stabilità delle superifici».

Quello che hanno fatto giovedì all’Idroscalo, dove le «Scimmie» potrebbero esibirsi a settembre, dove li abbiamo incontrati. Per questo i due dell’Asd dicono che nei fatti di Zola il parkour non c’entra. «I ragazzini si imbattono su youtube in video titolati come parkour in cui c’è gente che salta sui tetti. Si entusiasmano e scatta l’emulazione. Normale. Ma anche pericoloso e fuorviante. Quelli ripresi nei video sono professionisti con decenni di allenamenti alle spalle. E - qui sta il punto - sono ginnasti olimpionici tipo Damian Walters. Non gente che fa parkour». Anche Demetrio dice di essersi avvicinato così alla disciplina. «Poi ho capito che il parkour non è fare acrobazie, non è rischiare. Superare un cancello nel modo più naturale, quello è parkour».

 

Guai a chiamarla «moda». Piuttosto il parkour «è una disciplina che prende spunto dagli studi del francese George Hebert, docente di educazione fisica vissuto nell’Ottocento, sul metodo naturale — spiega Demetrio —. Hebert fu colpito dall’atletismo degli indigeni africani e li studiò. Quindi mise a punto un metodo di allenamento poi adottato dall’esercito francese e dai pompieri e ripreso negli anni ’80 dal parigino David Belle, figlio proprio di un pompiere». «Il parkour — ecco la definizione — è l’arte di muoversi nel modo più semplice, sicuro, fluido ed efficace tra gli ostacoli. Come gli indigeni tra fiumi e foreste, noi in città. E non è una gara».

«Ci si allena duramente. E si parte da prove minime come stare in equilibrio su un gradino a 50 centimetri da terra. Le basi sono tante, sia fisiche che mentali. Tra le seconde: la conoscenza dei propri limiti, della proprie qualità e la capacità di superare la fatica». L’obiettivo è «rendere il fisico d’acciaio». Il loro stile di vita non contempla né alcol né droghe. Dicono di vedere la città in modo diverso dagli altri: «Quel muro non è un ostacolo ma uno strumento per raggiungere le tribune (dell’Idroscalo ndr)». Inevitabile chiedere perché non possano allenare il fisico col nuoto o col basket. «Perché il parkour è un atteggiamento mentale. Ti aiuta a superare anche ostacoli quali l’esame che va male o la fidanzata che ti lascia. Insegna a sacrificarsi perché la prossima volta ce la si possa fare».