Come si entra nel locale segreto di Milano? Il nostro viaggio al White Rabbit

Il viaggio in uno degli speakeasy più segreti della città ha inizio da un armadio: "Per entrare serve una parola d’ordine"

Il White Rabbit

Il White Rabbit

"Come si fa a incontrare Bianconiglio?". "Se sei fortunato lo puoi tovare nella sua tana a bere distillati, ma è difficile riuscire a incrociarlo, a lui non piacciono i visitatori". È questo il monito di chi prima di noi ha avuto modo di entrare al “White Rabbit“. Come e dove non è dato sapere, si riceve una mail con delle coordinate e un indovinello da risolvere, capirete di essere arrivati nel posto giusto quando vi troverete di fronte una vetrina impolverata, giusto due panchine, in quel momento occupate da un gruppo di turisti spagnoli e inglesi che discutono animatamente sulla parola d’ordine all’ingresso, lasciandosi scappare qualche vocabolo in un italiano maccheronico, un dehor freddo e impersonale, così scialbo che non darebbe nell’occhio nemmeno se un passante dovesse sbatterci contro, e un campanello con la scritta “Suonate e attendete, apriamo appena possiamo”. 

Non esiste nessun cartello di benvenuto, nessun ingresso accogliente, nessuna indicazione: se non l’aveste capito, non vogliono essere trovati. All’interno si intravede una porta armadio in legno alta circa un metro e 70, da cui sopraggiunge una ragazza munita di borsalino, papillon, camicia bianca e un paio di pantaloni grigi sostenuti da bretelle, che con tono canzonatorio chiede "Parola d’ordine?". Sicuri, raccogliamo la sfida, ma solo in quel momento ci rendiamo conto di avere sottovalutato l’arguzia di Bianconiglio: non voleva essere trovato e ora ne abbiamo la prova. "Mi spiace ma non è corretta, ritornate con la risposta giusta". Piano B: lavoro di squadra. Il codice ha a che fare con l’Inferno di Dante: un secondo tentativo, poi un terzo, un quarto e ancora un quinto. Dopo 45 minuti siamo finalmente all’interno: tutto è esattamente come l’avevamo immaginato.

Il locale dà la sensazione di non essere adatto per ospitare troppe troppe persone, pullula di oggetti e di vecchi cimeli, c’è una radio, un pianoforte e delle poltrone, tutto rigorosamente uscito da un salotto illegale degli anni ’20, con al centro un enorme parete di alcolici che si staglia verso l’alto fino a toccare il soffito. Di lato una minuscola scala a chiocciola larga meno di un metro conduce in una stanza dove si gioca a poker e dalla parte opposta una identica, porta ad un piano rialzato da cui si sente provenire un leggero brusio. Lasciandoci condurre dalle note di Edith Piaf ci sediamo su un divanetto e scegliamo i cocktail che offre la casa. Parliamo piano, l’atmosfera ci avvolge, notiamo altri turisti stranieri entrare, vecchi giornali usurati e vecchie foto di Milano proposte lungo le pareti ricoperte da una carta da parati in tessuto verde smeraldo. Un coppia di giovani ragazzi si stringe su un divanetto, un ragazzo parla con il barman in tono confidenziale, stando attento a non farsi osservare dagli altri clienti. Ora ne abbiamo la certezza: siamo nei “Roaring Twenties.“ Un solo avvertimento: “Speak easy boys “.

 

 

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