Vimodrone, omicidio Nista: Colantuoni condannato all'ergastolo

La sentenza della Corte di Assise di Monza

I rilievi dopo il delitto

I rilievi dopo il delitto

Vimodrone (Milano), 4 dicembre 2017 - Condanna all'ergastolo con isolamento diurno per omicidio volontario premeditato. L'ha deciso la Corte di Assise di Monza per Emilio Colantuoni, carrozziere 56enne di Paullo, arrestato dai carabinieri del Nucleo investigativo di Monza su ordine di custodia cautelare del Tribunale monzese perché ritenuto responsabile della morte di Giuseppe Nista, 44enne di Melzo, titolare di uno sfasciacarrozze a Segrate. L’uomo è stato ucciso a colpi di pistola sulla sua auto Bmw da due uomini in sella a uno scooter la mattina del 10 maggio 2012 a Vimodrone. Un processo indiziario per un omicidio rimasto senza un movente. Anche se, secondo il pm monzese Alessandro Pepè, che aveva chiesto la condanna all'ergastolo, un movente al processo è comunque emerso.

"Colantuoni ha confessato in due occasioni nelle quali era sotto l’effetto di cocaina o alcol. La prima volta a un amico, la seconda volta alla stessa vedova di Nista a una grigliata: ha detto di avere ucciso la vittima perché è stato pagato 100mila euro". Contro Colantuoni il Dna estratto da un casco da motociclista abbandonato, i tracciati telefonici (che lo avrebbero posto sul luogo e all’orario del delitto) e l’intercettazione di una conversazione che il presunto killer ha fatto in auto con l’ex moglie, parlando di alcune circostanze e dettagli dell’omicidio. Giuseppe Nista era fratello di Domenico Nista (arrestato nel 2007 e diventato collaboratore di giustizia nel 2010 quando aveva iniziato a raccontare nomi, cognomi e dettagli delle infiltrazioni ‘ndranghetiste al Nord) e aveva qualche precedente penale per spaccio di stupefacenti. Ma non ci sono prove che il suo omicidio sia stato una vendetta contro la decisione del fratello di diventare un pentito. Domenico Nista e la madre si sono costituiti parti civili al processo, ottenendo rispettivamente una provvisionale sul risarcimento dei danni di 70 e 50 mila euro. Dal canto suo, l’imputato si proclama innocente. "Il casco dove hanno trovato il mio Dna lo tenevo in carrozzeria per provare le moto dei clienti".