Inzago, l'imam: «L’Islam con i Sergio non c’entra. Per loro ci vorrebbe uno psicologo»

Parla la guida spirituale del centro frequentato anche dal papà di Fatima

Mohamed El Korchi è da febbraio Imam e presidente dell’associazione Stella di via Boccaccio

Mohamed El Korchi è da febbraio Imam e presidente dell’associazione Stella di via Boccaccio

Inzago (Milano), 4 luglio 2015 - «Questo clamore non è bene per noi. L’associazione da anni è una presenza integrata, svolgiamo tante attività, ci aiutiamo fra di noi. La preghiera in sede? Solo perché arrivano giorno e orario. Non abbiamo bisogno di un tetto per pregare. Il musulmano che prega lo fa ovunque si trovi». Mohamed El Korchi è da febbraio Imam e presidente dell’associazione culturale Stella, il centro di via Boccaccio punto di riferimento per la folta comunità islamica locale. Il centro esiste da diversi anni. Ma da gennaio, all’esplodere del caso Maria Giulia Sergio, è finito sotto i riflettori di un Comune pressato dalle istanze di sicurezza.

Come vivete questo momento?

«Con difficoltà. Siamo contro ogni terrorismo, contro ogni violenza. Lavoriamo per la pace e la tolleranza. Quanto accade fa paura anche a noi. Siamo noi, più degli occidentali, a rischiare di perdere i nostri figli. La Rete, che veicola i messaggi di quei folli, se ne è già portati via parecchi».

La famiglia Sergio?

«Lui lo conoscevamo, perchè veniva qui. Non gli ho mai chiesto nulla della sua famiglia. Molti mesi fa lo avevo incontrato con una delle figlie, già coperta dal niqab. Mi disse, ‘ti presento mia figlia’. Ma nessuno qui l’ha mai conosciuta».

Italiani convertiti e così radicalizzati. Tanto da abbracciare la guerra santa.

«È un discorso complesso. Vi sono conversioni note di uomini o donne che sono stati conquistati dal vero messaggio dell’Islam. Ma queste persone sono altra cosa. Non chiamiamoli islamici. Per loro ci vorrebbe un buon psichiatra».

Il Comune in questi mesi ha scandagliato la vostra attività, per definire se vi fosse una «prevalente» attività di preghiera.

«Non c’è. Abbiamo consegnato ogni dettaglio su ciò che facciamo. Il venerdì abbiamo incontri che definiamo di ‘orientamento’, di confronto su tematiche varie, preceduti dalla preghiera. Il sabato sera ci raduniamo per una cena con pietanze della nostra tradizione. Padri e figli maschi. La domenica corso di arabo per i bambini. Molti sono nati qui, e non lo parlano. È la lingua della loro tradizione, desideriamo che la imparino in caso di ritorno al proprio Paese».

Ritorno, perché?

«Ritornano in molti. Ma non per combattere. Per fame, per povertà. Il problema di tante nostre famiglie non è certo la spada, bensì il pane. Forse occorrerebbe capire questo. Cerchiamo di aiutarci».

Le donne partecipano alle attività dell’associazione?

«Talvolta. Ma non frequentano molto. Per scelta loro, per tradizione. Lavorano, si occupano della casa, dei bambini. Mia moglie mi dice, ‘dove lo trovo il tempo’?».

Giocate anche a pallone.

«Abbiamo una squadra di calcio che ha già vinto un torneo, vogliamo farne un’altra per i bambini. Abbiamo molti progetti. Spero di poterli raccontare anche in seguito, quando questo caso che ha portato l’attenzione su di noi sarà passato».