Pessano Con Bornago, 6 ottobre 2012 - I carabinieri del Gruppo Monza non hanno dubbi: Vincenzo, Antonio e Carmelo Giacobbe hanno sottomesso un intero paese, Pessano con Bornago, nel Milanese, con il racket. Dalle vittime pretendevano denaro, prestazioni professionali, auto e telefonini. Nel mirino, commercianti, agricoltori, privati cittadini, «scelti fra le persone più vulnerabili», per gli inquirenti.

Giovedì dopo un anno di indagini, i militari, guidati dal colonnello Giuseppe Spina, hanno fatto scattare le manette ai loro polsi. Per gli investigatori il copione seguito dai tre, di 33, 36 e 29 anni, era sempre lo stesso: agivano nel «nome del padre», Salvatore Giacobbe. Boss della ’ndrangheta, condannato, dice lui stesso, «a due ergastoli e 83 anni di carcere». Cinquantanove anni, di cui 37 passati in cella, tra San Vittore e Bruculi in Sicilia, nato a Gioia Tauro, per i giudici Giacobbe senior era uomo di punta del clan Piromalli.

Arrestato l’ultima volta nel ’92 dopo una lunga latitanza, in casa sua fu trovato un arsenale: 2 fucili mitragliatori, 4 pistole e oltre 200 proiettili. È uscito a gennaio dopo aver preso due lauree dietro le sbarre, in psicologia e sociologia. Non rinnega il passato Giacobbe, ma dice di aver pagato il suo debito con la giustizia. Vedovo da 4 mesi, la moglie se ne è andata a causa di un male incurabile, ora è alle prese «con i ragazzi». Ma nega che sappiano cosa sia un «uomo d’onore».

Lui che ha ancora l’obbligo di firma, giovedì era a casa quando i carabinieri sono arrivati «a prenderli». Uno di loro risiede nella villa a due piani a pochi metri dalla Monza-Melzo, a Pessano. Il paese dove Salvatore Giacobbe fu spedito al confino.

Tale padre tale figlio?
«Assolutamente no. Faccio di tutto perché non sia così. I ragazzi rischiano di pagare un prezzo molto alto a causa mia. Non hanno capito».

Cosa?
«Che hanno un padre ingombrante e che il nome che portano genera inevitabilmente pregiudizi. Siamo pieni di pregiudizi. Ma quando si parla di uno come me, i pregiudizi si sprecano».

Sono accusati di estorsione, come lei tanto tempo fa.
«I miei figli non hanno idea di cosa sia un uomo d’onore. Le loro sono spacconate da ragazzi. Prendono un’auto e dicono: “Ci pensa mio padre quando esce”. Se si legge l’ordinanza di custodia cautelare a loro carico, risulta chiaro. La mafia, come la chiamano i giudici, non minaccia per pagare la bolletta del gas. Se fosse questione di boss, non saremmo sul piccolo cabotaggio. Il sistema è un’altra cosa».

Cos’è?
«Non ruba ai poveretti. Io non l’ho mai fatto. Quella è volgare delinquenza».

E invece voi a chi rubate?
«Io sono stato accusato ingiustamente».

I suoi figli sarebbero volgari delinquenti?
«No, sono giovani. E non si rendono conto del peso che si portano addosso. Il contesto in cui si cresce è fondamentale. Se fossi nato a piazza San Babila sarei un sanbabilino, e invece sono venuto al mondo in un posto dove le regole sono molto diverse. Se i miei ragazzi non fossero figli di Salvatore Giacobbe, certi titoloni non ci sarebbero stati. Devono imparare a fare i conti con il cognome che portano».

Salvatore Giacobbe era considerato il boss degli estorsori.
«Sbagliavano. Basta ragionare per capire: al Nord lo Stato c’è e non c’è. Diciamo che è a metà. Erano gli industriali a rivolgersi a me per ricevere protezione».

Milano e la Lombardia sono in mano alla ’ndrangheta?
«Limitiamoci alle infiltrazioni. Come ho detto, ho saldato i miei debiti con la giustizia. Mi sono fatto il 41 bis e l’articolo 90 (cosiddetto carcere duro)».

E gli appalti?
«È la stessa cosa della protezione. Sono loro, gli imprenditori, che li offrono».

Quanto crede di aver inciso sulla vita dei suoi figli?
«Molto, mio malgrado. Poi però c’è la libertà personale, la possibilità di scegliere. Ma emanciparsi da una famiglia fatta in un certo modo, non è semplice. Sono stato in carcere col figlio di Donat Cattin. Non credo che suo padre, il ministro, l’avesse spinto a fare il terrorista. Eppure. Certo le Br non sono microdelinquenza. Anche noi abbiamo un codice».

Quale?
«Con la droga io non ho mai avuto niente a che fare. Sono stati i colombiani a rovinare tutto».

Lei li ha fatti i conti col suo cognome?
«Mio padre era un commerciante di bestiame. Non ha fatto neanche un giorno di galera. Ma in Calabria, e al Sud in generale, lo Stato non esiste. Si cresce immersi in una cultura che ti insegna a sputare addosso alle divise quando ne vedi una. È difficile uscirne, lasciarsi alle spalle tutto. Prenda me».

Cosa le accadde?
«A 16 anni e mezzo ho ucciso un uomo. Dovevo vendicare la morte di mio fratello, è stato devastante. Per chi è cresciuto al Nord è difficile capire. Ero solo un ragazzo. Da noi se uno è regolare (cioè lavora) non conterà mai niente. E così sono entrato in carcere la prima volta».

Come i suoi figli adesso.
«Mi spiace immensamente che siano dentro. In galera ci sono solo relitti umani. Il recupero, meglio la “redenzione”, è un percorso personale. C’è molta ignoranza ancora oggi dietro le sbarre. Tanti detenuti non hanno neppure finito la scuola dell’obbligo. E invece la cultura serve molto per cambiare. I miei ragazzi non hanno avuto la grazia».

Che grazia?
«Di capire tutte queste cose. Del resto sono stato via vent’anni. Non è facile crescere nelle condizioni che sono capitate a loro».

Pentito?
«Non si sputa nel piatto dove si è mangiato».

Gratteri la cita in «Fratelli di Sangue» come uomo delle cosche di Borgia.
«Sì è vero. Mi cita. Non è il solo».

barbara.calderola@ilgiorno.net