Pioltello, 9 luglio 2011 - Un capoclan potente e temutissimo, leader di tutti gli affiliati alla ’ndrangheta del Sud Est milanese. Alessandro Manno, detto Sandro, era stato messo al vertice della «locale» di Pioltello dal boss Carmelo Novella in persona, poi ucciso in una faida interna. Per Manno ieri il pm della Dda di Milano Alessandra Dolci ha chiesto una delle condanne più severe — vent’anni — nell’ambito del processo scaturito dall’operazione Infinito, che vede alla sbarra con rito abbreviato 118 imputati (venerdì la prossima udienza). Centosettanta erano stati gli arresti solo in Lombardia nel luglio 2010 che avevano sradicato le infiltrazioni della ‘ndrangheta sul territorio lombardo e svelato anche i contatti delle cosche con il mondo imprenditoriale e delle istituzioni. Insieme a Manno sono finiti alla sbarra nell’aula bunker milanese di via Ucelli di Nemi anche Pasquale Zappia — 18 gli anni di reclusione richiesti — considerato il capo dei capi della ‘ndrangheta in Lombardia dopo l’elezione che si tenne il 31 ottobre 2009 nel centro Falcone Borsellino di Paderno Dugnano.
 


Diciotto anni sono stati chiesti anche per altri capi delle 15 locali individuate, come Vincenzo Mandalari per Bollate. Le accuse, a vario titolo, comprendono anche il reato di associazione mafiosa e disegnano una vera e propria colonizzazione della regione da parte delle cosche. A Pioltello — come ricostruito dalla Direzione distrettuale antimafia — le infilitrazioni di ’ndrangheta hanno una storia trentennale, e 22 sono gli arrestati legati alle famiglie dei Manno e dei Maiolo. Non si occupavano di appalti o interessi collusi con il potere: i capi della «locale» di Pioltello preferivano il traffico d’armi e stupefacenti. Ma in tanti anni di attività non sono mancati neppure i ferimenti e le intimidazioni per il controllo dei videopoker. Manno viene descritto dalla Dda come un uomo potente, temuto dai gestori dei locali dove piazzava le sue macchinette mangiasoldi e nel mondo dello spaccio. Le indagini hanno ricostruito pestaggi e raffiche di proiettili contro i muri dei bar mentre l’omertà e la paura proteggevano da processi e condanne. Almeno finora.