Gessate, 9 ottobre 2010 - A un passo  dal baratro, senza futuro né speranze. Sono gli operai della Wagner Colora, fino a un anno e mezzo fa metalmeccanici orgogliosi, ora accampati sulle brandine in fabbrica per ribadire un concetto semplice e doloroso: «Noi da qui non ci muoviamo». Dopo il mancato accordo azienda-sindacati e la cassa sfumata rischiano di non avere più reddito. Un’ipotesi che li ha spinti ad occupare la sede di Burago.
«Siamo condannati a morte», dicono. Vorrebbero riavvolgere il nastro del tempo e tornare indietro ai tempi in cui la multinazionale tedesca dell’automotive - produttore di pistole e pompe per verniciatura a spruzzo - aveva il vento in poppa.

La crisi ha sparigliato le carte, «e poi la proprietà ci ha messo del suo. Aproffittano della recessione per liberarsi di noi», aggiungono gli operai. Trentasette licenziamenti su 104 dipendenti dislocati in tre sedi (25 le lettere spedite finora): Gessate, Burago Molgora in Brianza e Motta di Livenza nel Veneto. Questo in soldono il piano di ristrutturazione.

Roma nel frattempo dopo che la dote di cassa integrazione straordinaria era stata esaurita, ha concesso la deroga, ma la proprietà non ne vuole sapere. O meglio. L’avrebbe richiesta come deve fare per legge, ma a condizione che i lavoratori afirmassero dimissioni in bianco. «Cioè accettassero di essere esplusi allo scadere del riposo forzato. Un modus operandi inaccettabile», spiega Antonio Castagnoli della Fiom Cgil.

 

Il sindacato ha chiesto l’immediato ritiro della mobilità «non più giustificata dalle condizioni di mercato - aggiunge Castagnoli - ma da calcoli di mero profitto, i signori delocalizzano in Svizzera». In mezzo, le vite stritolate di un terzo dei dipendenti. Fra i lavoratori, ci sono mamme con ferite dolorose. Hanno figli affetti da sindrome di Down che rischiano di rimanere senza mezzi. Lucia Stucchi, 44 anni, impiegata, è una di loro. «Siamo qui per dire no a questo trattamento. Non possono buttarci via come stracci».

Parole dure che vanno dritte al cuore. «La nostra è un’agonia lenta, ora siamo in piena tragedia», le fa eco Stefania Tota, 39 anni, operaia. Sposata con due figli, l’ex tuta blu non sa come farà a pagare il mutuo. «E tutte le altre rate, perdere lo stipendio significa andare a fondo». La fabbrica è una piccola società, ci sono anche i padri separati con prole a carico. Giacomo Perego, 46 anni, operaio, ha una figlia di 10 da mantenere. «Terrorizzato dagli eventi, ho spedito una cinquantina di curriculum ma non ho ricevuto neppure mezza risposta».

 Giovanni Chiariello di anni ne ha 47, è un altro operaio monoreddito, la moglie non lavora e hanno due bimbe: una di 10 anni e l’altra di 4. «Siamo qui per lottare e far sentire la nostra voce. Il domani, senza cassa, non esiste più». Condivide Angela Martiniello, 53 anni, altra collega. «Per 18 anni ho svolto lavori usuranti e non ho avuto avanzamenti. Per chiudere in bellezza queste carriera, si fa per dire, dobbiamo ingoiare anche questo boccone amaro».

L'occupazione  della fabbrica di Burago è stata organizzata nei minimi dettagli. Brandine da campo sono sistemate in reparto, nell’ex mensa si fa da mangiare per tutti. «Siamo pronti a resistere finché sarà necessario. Finchè cioè non avremo ottenuto quel che ci spetta di diritto, la cassa integrazione in deroga. Qui non siamo in Germania e gli ammortizzatori servono».