2010-01-13
di ERSILIO MATTIONI
— MILANO —
SULLA SOGLIA NON c’è nessuno. E quando varchi quel grande cancello arrugginito, hai l’impressione di entrare in un luogo deserto e abbandonato, mentre appena fuori c’è una città che pulsa, con i clacson delle auto e la gente che cammina veloce. In piazzale Lodi e dintorni in pochi sanno cosa succede nel vecchio scalo di Porta Romana, dove oltre i binari ormai dismessi e infestati dagli arbusti sorgono tre bidonville, tre ghetti che possono scoppiare. Basta una scintilla. Qui, sotto un porticato o dentro i depositi, vivono gli immigrati. A sinistra ci sono gli afgani, a destra i senegalesi. E in mezzo c’è il gruppo storico, che vive lì da cinque anni, prima e dopo lo sgombero. Si sentono i padroni del luogo e hanno costruito un baracca che è per tutti off limits. Vengono dal Togo, dal Kenya, dell’Eritrea, dal Ghana, dal Mali. E ancora dalla Costa d’Avorio, dal Sudan, dell’Etiopia. Parlano con foga, con rabbia: «Non ci piace l’Italia, non ci piacciono gli italiani. E non ci piace vivere così. Cerchiamo lavoro ma nessuno ci aiuta».

HASSAM È L’UNICO a parlare la nostra lingua e, soprattutto, a capire. All’interno del dormitorio si sente la musica, un cellulare che squilla, poi il vociare degli altri occupanti che all’improvviso escono. Ci dicono che non c’è nulla da vedere né da fotografare, mentre lungo la parete fanno bella mostra di sé una decina di biciclette nuove di zecca. Fumiamo una sigaretta insieme, mentre il clima si distende e ricominciano i loro sfoghi. I dintorni della baracca sono disseminati di rifiuti. Li calpestiamo per allontanarci; più in là ci aspettano i ragazzi del Senegal che ci mostrano una doccia costruita con bastoni, rami e stracci, in mezzo ai binari. Musa ci dice di aspettare: c’è una pentola sul fuoco con una zuppa che bolle. La cena ha la priorità su tutto. Per pranzo, invece, si va alla Caritas o si chiede l’elemosina. Pochi minuti ed entriamo nei locali un tempo occupati dal capostazione: due stanze, grandi venti metri quadrati ciascuna, dove in trenta dormono su materassi putridi. L’aria è pesante, i vestiti sono appesi ai chiodi e le scarpe da tennis ammassate in terra. «Cosa volete? Cosa fate?», chiede Labahl. Stava dormendo e l’abbiamo svegliato.

DALL’ALTRA PARTE dello scalo gli afgani stanno giocando a calcio con un pallone sgonfio. Sono tutti rifugiati politici, ci mostrano i permessi, oltre a una multa di centouno euro che un controllore Atm ha inflitto a Maten. «Ero in giro a cercare lavoro». Sono tutti giovanissimi, dai 18 ai 23 anni. Vivono sotto il portico del vecchio deposito, perché i locali sono stati murati e accedervi è impossibile. Asadullah ha acceso un bel fuoco, attorno al quale ci riscaldiamo, mentre Gulljan ci indica un pentolone e ci offre una tazza di caffè. L’acqua arriva a giorni alterni, grazie a un tubo attaccato chissà dove. «In Afghanistan i Talebani ci volevano ammazzare, perché non volevamo diventare kamikaze. Siamo scappati in Italia ma la gente non ci rispetta. Non possiamo continuare a vivere così». Sotto la tettoia ci sono i materassi: gli afgani dormono lì, all’aperto. Quando li salutiamo, qualcuno si corica. E scompare sotto le coperte umide. Qualcun altro ci accompagna all’uscita. Lo scalo di Porta Romana adesso è buio. I falò non smettono di ardere.