Inveruno, 5 febbraio 2014 - «Mimmo, ormai va’ fino in fondo. Non farti prendere. Pensa a tuo fratello, a quello che ha fatto per te». Maria Antonietta Lantone in famiglia è Antonella. Capelli neri, tratti decisi, una sigaretta dopo l’altra, questa donna di cinquant’anni dipendente di una cooperativa pe rl’assistenza agli anziani, parla del figlio Antonino, morto al pronto soccorso dell’ospedale Fornaroli di Magenta. Parla di Domenico, il figlio ergastolano, in rocambolesca, sanguinosa fuga dal tribunale di Gallarate.

Appartamento al piano terra in un condominio di quattro piani. Locali canonici, tapparelle blu abbassate, un enorme televisore al plasma, un monitor che riflette le immagini delle telecamere di sorveglianza. Per Antonella i figli più grandi sono Mimmo e Nino. «Mimmo e Nino sono come gemelli, avevano solo tredici mesi di differenza, erano molto legati. Il minore venerava Mimmo, non si rassegnava che morisse in galera. Avrebbe fatto di tutto per aiutarlo. Aveva architettato un progetto per liberarlo. A noi ci avevano tenuto all’oscuro ».

«Mimmo e Nino - interviene Mario, il padre - si erano incontrati nel carcere di Saluzzo, avevano parlato di un progetto di evasione. Erano stati intercettati». Antonella parla del pomeriggio di fuoco a Gallarate. Una volta di più difende i suoi figli. «Non erano armati, non hanno sparato anche se avrebbero potuto farlo».

Poi i ricordi. La passione di Domenico per il calcio, la carriera di giovane promessa in squadre «satelliti» del Milan troncata da un infortunio. Gli studi interrotti alla scuola alberghiera. «In carcere - dice il padre - aveva ripreso a studiare per prendere il diploma di ragioneria». In nottata Antonella è stata ascoltata per ore dai carabinieri nella caserma di Magenta. Con lei Laura, vent’anni, la minore dei suoi quattro figli, il fidanzato, un’altra ragazza, Alexa, la fidanzata di Daniele, l’altro figlio.

Perentoria, autorevole, anche quando sciorinava una versione che annullava la precedente, anche quando smetteva l’abito della donna d’onore per vestire quello della casalinga dimessa e gregaria: «A casa mia non conto niente. I miei figli non mi considerano, entrano, escono, portano le loro ragazze ».

I figli. Il processo che ha visto Domenico Cutrì blindato al carcere a vita è costato a sua madre un rinvio a giudizio per falsa testimonianza. I figli maggiori legati come da un oscuro patto di sangue. Per fare evadere il fratello Nino aveva frequentato una scuola da elicotterista. Aveva raccontato la serata più dolorosa della vita. «Mi hanno citofonato: “Corri, corri”. C’è tuo figlio che sta male”. Sono scesa in ciabatte, senza borsetta. C’era un uomo che non conoscevo e mio figlio ferito con le gambe allungate sul cruscotto. Era vivo, caldo. Aveva gli occhi chiusi e non mi rispondeva. L’unica cosa che mi ha detto l’uomo è stata che gli avevano sparato. Ho sempre guidato io. L’uomo è sceso a un semaforo prima dell’ospedale».

Mario Cutrì sale al Nord da Melicucca, un migliaio di abitanti in provincia di Reggio Calabria, portato dal soggiorno obbligato, prima a Trecate, nel Novarese, poi in Lombardia. Negli anni ’80 la famiglia è a Inveruno, in una casa popolare. I ragazzi nascono all’ospedale di Cuggiono. I maschi più grandi sono bulletti e rissosetti. Un giorno di vigilia di Natale, nella piazza di Inveruno, Nino prende a pugni un Babbo Natale perché, dice, è stato sgarbato con lui. Un camionista di Casorezzo rimprovera al giovane Cutrì e un amico, Valentino Morello, per gli apprezzamenti alla sua ragazza. Spara a Morello che vorrebbe rifugiarsi fra i bambini che giocano nell’oratorio e lo centra a un braccio.

Figli di una criminalità minore. Forse ci sono sogni, ambizioni. Troncati dalla condanna di Domenico per l’omicidio del giovane magazziniere polacco Luckasz Kobreniecki, troppo galante con la sua fidanzata. «Ho un fratello condannato all’ergastolo», si vantava, orgogliosamente, Antonino. Tanto orgoglioso da sacrificargli la vita.