Non si sa come sia morto, né di preciso dove e quando. I suoi resti non sono stati nemmeno mai ritrovati. Di lui resta solo il nome inciso sul Monumento ai Caduti di Ballabio, il paese d’origine di Gianfranco Lombardini, uno dei partigiani lecchesi della prima ora, catturato dai nazifascisti e deportato nei lager, dove è stato ucciso nel marzo 1945, poco prima di poter essere liberato dagli Alleati, all’età di appena 20 anni. A ricostruire la storia e i suoi ultimi giorni è stato Augusto Giuseppe Amanti, vicepresidente dell’Anpi della Valsassina, archeologo e angelo custode della memoria di oltre 400 internati valsassinesi, 47 dei quali mai tornati a casa, né vivi né morti, come il partigiano Gianfranco Lombardini. Grazie a lui domani i discendenti del partigiano mai ritrovato riceveranno la Medaglia d’onore finiti nei campi di concentramento durante la Seconda guerra mondiale. "Era un operaio – racconta Beppe, come lo chiamano tutti, nel suo libro "Valsassinesi internati nel III° Reich" -. Era nato a Ballabio Superiore il 31 agosto 1924". Dopo essere stato arruolato a forza in Marina. In seguito all’armistizio dell’8 settembre ‘43 si è unito ai partigiani di Erna. "Di lui si hanno scarse notizie - prosegue lo storico locale -. Dopo il rastrellamento del 28 settembre 1943 si narra di un suo trasferimento a Spino d’Adda per tentare di sfuggire ai nazifascisti". In base ai documenti che l’investigatore della memoria dei deportati, è emerso che il partigiano è stato rintracciato e arrestato il 3 luglio 1944 a Udine: per lui è cominciata una via crucis tra i campi di concentramento di Buckenwald prima, di Flossemburg poi il 28 novembre, infine di Bergen-Belsen, in Germania, con le matricole 29726 e 39336 marchiate a fuoco sulle braccia. Quando i soldati inglesi il 14 marzo 1945 hanno liberato il campo di lui non c’era già più alcuna traccia. "Secondo gli atti ufficiali redatti dai componenti della Commissione interministeriale della Presidenza del Consiglio dei Ministri in data 18 maggio 1982 è scomparso l’8 marzo 1945, mentre era ristretto in campo di sterminio – spiega Augusto Giuseppe Amanti -. Si può ragionevolmente immaginare che sia stato ucciso durante le fasi della liberazione del campo e sia finito, come purtroppo altri deportati, in una fossa comune".