Alpinista oltre la malattia: a 8000 metri dopo l’infarto

Dà coraggio a tanti pazienti. Il medico che lo segue: "Dimostra che è possibile"

 Valerio Annovazzi (Cardini)

Valerio Annovazzi (Cardini)

Lecco, 15 luglio 2018 - «L'infarto non è la fine del mondo, anzi potrebbe anche essere un nuovo inizio». È una storia di speranza per tanti malati quella che arriva dal quarto piano dell’ospedale Alessandro Manzoni di Lecco, dove nel reparto di Cardiologia vengono curati oltre 400 pazienti all’anno per infarto acuto del miocardio. Di lì è passato anche Valerio Annovazzi, classe 1958, alpinista ormai conosciuto per le sue salite sulle vette di ottomila metri. «Sono un montanaro da relativamente poco tempo. Prima dovevo guadagnarmi da vivere e pesavo il doppio. Facevo il camionista e ho fatto anche due infarti, uno quindici anni fa e l’altro cinque. Ho iniziato a fare attività fisica per mettermi in forma», racconta lo scalatore che viene seguito dal dottor Luigi Piatti, anche lui alpinista e cardiologo. Annovazzi dopo essere andato in pensione ha iniziato a guardare in alto fino a quando nel 2014 è riuscito a salire il Cho Oyu, 8.201metri, il Manaslu 8.156 metri completamente da solo due anni più tardi e il Gasherbrum II 8.035 metri nel 2017. Quest’anno il freddo intenso l’ha costretto a rinunciare a 8.250 metri sul Makalu. «Uso l’esperienza di Valerio come esempio per i miei pazienti - spiega il medico - Ovviamente non è necessario, né tantomeno raccomandato andare a 8mila metri senza ossigeno dopo un infarto, ma lui dimostra che è possibile».

Dopo un infarto il rischio più grosso è che vinca la paura? Cosa consiglia ai suoi pazienti dottor Piatti?

«Molti hanno paura, qualcuno finisce per chiudersi nel suo guscio. Ma così vince la malattia. Bisogna vivere di speranze e non di paure e la speranza di un malato colpito da infarto deve essere quella di tornare a fare cose che era felice di fare. Deve assumere con regolarità le terapie, ridurre al massimo il colesterolo, contenere il peso e soprattutto smettere di fumare, se prima lo faceva».

Il suggerimento è quello di andare in montagna?

«Camminare è la miglior medicina per l’uomo, come ci ha insegnato Ippocrate, medico greco, “padre della medicina occidentale”. Dopo circa un mese di convalescenza da un infarto, se non c’è stato un danno miocardico importante e non si verifica dolore al petto o affanno, il paziente, direi “ex malato”, trae giovamento dal camminare di buon passo, anche per periodi prolungati. Dal momento che l’attività fisica più adeguata è l’esercizio aerobico se una persona ha piacere, lo può fare, senza vere limitazioni; anche la quota non è un problema, l’importante è non superare i propri limiti di esperienza. Sicuramente è importante imparare a conoscersi, sapere fino dove ci si può spingere. Si guadagna fiducia».

L’infarto obbliga quindi a ripensare la propria vita, non per forza in peggio?

«Guardi che ho vari esempi di persone che sono state meglio dopo l’infarto. Magari prima erano sovrappeso, lavoravano troppo ed erano sempre stressate. Hanno fatto un piccolo infarto, lo hanno superato bene, sono state costrette a rimettersi in forma ed imparato a prendere la vita in modo più naturale; tornano dicendomi di sentirsi meglio ora dopo l’infarto. La vita può riservare soddisfazioni per tutte le età».